Nell’Europa occidentale del dopoguerra, la Sinistra, dopo aver guidato la Resistenza contro il fascismo ed il nazismo, si ritrova nuovamente esclusa dal potere, tornato nelle mani delle classi dominanti. L’arte diviene allora uno dei tanti strumenti della lotta di classe del proletariato. Il critico Giulio Carlo Argan dice espressamente nel suo manuale, in uso nei licei italiani: “Se l’arte non può non essere politica e la politica si concreta nella lotta di classe, l’azione politica dell’intellettuale deve svilupparsi secondo la strategia del Partito che conduce la lotta. L’artista rinuncia alla propria autonomia di ricerca e di espressione perché ha già realizzato la propria libertà morale con la scelta ideologica. (…) p. 632-633”. Siamo nella fase del cosiddetto realismo socialista, in cui gli artisti, secondo le direttive del Partito, realizzano opere di contenuto sociale, che mostrano la povertà e l’indigenza dei lavoratori; opere che da un lato criticano le bassezze e le ingiustizie del capitalismo e dall’altro celebrano la grandezza del Socialismo. “Si tratta - dice Argan – di giustificare moralmente la lotta politica con la decadenza storica della classe al potere”. L’arte esprime ancora dei contenuti e delle idee, per quanto vincolate alla strategia del partito in funzione della lotta di classe. Successivamente, i rapporti con la società industriale si rompono in modo definitivo. Non si tratta più di realizzare una protesta guidata da una teoria filosofica o politica, ma si arriva alla totale conflittualità, senza compromessi e senza più intenzione di comunicare o di esprimere nulla. L’arte diventa pura protesta, gesto fine a sé stesso, senza significato. Dice Argan: “Non c’è atto morale che non sia politico: se l’artista come intellettuale impegnato non ha più una funzione integrata nel dinamismo del sistema, ha tuttavia il dovere dell’intervento e del giudizio, della denuncia e della protesta. (…) A che pro contrapporre l’utopia della ragione al brutale realismo del potere? Nasce così la poetica del gesto: deciso, rapido, senza possibilità di ripensamento”. p. 635 p. 637 . Il potere è dunque troppo forte per essere combattuto con razionalità e con un linguaggio comunicativo: l’unica arma possibile diviene allora lo sciopero ad oltranza da parte degli artisti; il rifiuto sistematico di produrre opere d’arte. L’arte diventa una semplice azione di disturbo, senza significati intelligibili, volta a turbare il fruitore delle opere lasciandolo nell’incertezza e nell’angoscia. Prosegue Argan: “Le sperimentazioni di poetica e le proposte d’intervento estetico che si sono succedute, incrociate, sovrapposte negli ultimi vent’anni concordano su di un punto: qualsiasi cosa possa o debba fare l’artista, ciò che assolutamente non può e non deve fare è produrre opere d’arte nel senso tradizionale del termine, cioè oggetti a cui è connesso un plusvalore e che, per conseguenza, siano fruibili soltanto da una èlite di cui accrescono la ricchezza e dunque la capacità di potere”. (…) p. 661. Nel 1970 si tenne a Zagabria un incontro di critici d’arte (in gran parte militanti comunisti) tra i quali c’era anche Raffaele De Grada. In questa occasione fu dichiarata la morte dell’arte. Da allora in poi chiunque volesse fare arte doveva operare contro l’estetica.
Il brutto, il rozzo, il primitivo, tutto ciò che può portare ansia, disturbo, angoscia era l’unica forma d’arte concessa dalla critica. Veniva così applicata la teoria dello “sciopero dell’arte” alla società occidentale, colpevole di aver accettato il capitalismo al posto del comunismo. Chiunque avesse realizzato opere piacevoli e consolatorie, adatte ad essere fruibili ed apprezzate dal pubblico, da allora viene additato come “commerciale”.
Ecco dunque cos’è l’arte oggi: tele tagliate, bucate o strappate, completamente bianche oppure macchiate in malo modo; oggetti rotti e assemblati a caso, foto di buchi fatti nel terreno, rami d’albero sporcati di colore, animali vivi o morti esposti come fossero opere e persino minorati mentali, fino ad arrivare alla cosiddetta “arte concettuale”, che abolisce ogni intervento manuale dell’artista. Ci si limita ad esporre degli oggetti scelti a caso, lasciando al fruitore la libera interpretazione del loro significato. Si raggiunge così il massimo del banalità e del nonsenso: si tratta di ciarpame condito con affermazioni a carattere sociale e politico. Pensiamo ad esempio alle famose scatolette di “merda d’artista” realizzate da Piero Manzoni negli anni ’60.
Insomma: nell’arte contemporanea tutto fa brodo, purché si tratti di oggetti o azioni sgradevoli o insignificanti, che non arricchiscano chi li acquista e che non siano portatori di un valore positivo. E i ricchi collezionisti – ignari di tutto - pur di essere considerati “IN” e di seguire le mode, comprano a peso d’oro oggetti di nessun valore, presi in giro dai critici, dai professori di museo e dai cosiddetti esperti. La sinistra - collocando i suoi uomini nei posti chiave della cultura - è riuscita nell’intento di farsi finanziare dai capitalisti, che pagano lautamente autentiche schifezze, seguendo a pappagallo le stupidaggini propinate loro dai critici. Così l’arte di protesta - nata per combattere il capitalismo – è divenuta complice del più bieco e cinico affarismo. Gli artisti che non si adeguano a questo andazzo e cercano ancora di produrre autentiche opere d’arte vengono emarginati dai critici e dagli esperti, allontanati dal mercato e ridotti alla fame. Se un popolo si giudica dall’arte che produce, l’Italia (che fu patria di Dante e Michelangelo) e l’Occidente tutto sono ormai in preda alla degenerazione. In Italia, oggi, chi vuole fare l’artista onestamente e costruttivamente, creando opere valide e piacevoli, che arricchiscano l’umanità di qualcosa di bello e consolatorio, non può. Costui viene respinto dal mercato ufficiale, allontanato e costretto ad operare in disparte, confuso tra i dilettanti, relegato in una dimensione secondaria nella quale non c’è possibilità di sopravvivenza. L’arte ufficiale, pubblicizzata, remunerata e decantata è soltanto quella concettuale, priva di ogni valore e signficato.
A questo punto la domanda sorge spontanea: a vantaggio di chi va tutto questo? Serve realmente per combattere le ingiustizie e per creare una società migliore? Serve per arrivare alla Rivoluzione? Oppure soltanto ad arricchire i mercanti e tanti truffatori che agiscono nel mercato dell’arte sfruttando l’ignoranza e la dabbenaggine dei collezionisti? Quali finalità ha questa degenerazione dell’arte? Perché continuare su questa strada? Certamente l’attuale condizione dell’arte non avvantaggia i cittadini onesti, che pagano le tasse e vedono il denaro pubblico sprecato per organizzare mostre e manifestazioni costose quanto inutili, come la Biennale di Venezia e tante altre simili. Ma il problema è molto più grave: il mercato dell’arte, con i prezzi delle opere gonfiati a dismisura e senza che nessuno possa verificarne l’esatto valore, diventa un facile strumento per grandi speculazioni, affarismo di stampo mafioso, riciclaggio del denaro sporco, come attestato anche dal Corriere della Sera (“I prezzi dei quadri? Li decide la mafia” di Viviana Kasan, 18.10.89). Dobbiamo rassegnarci a questa situazione o possiamo reagire in qualche modo? Io credo che lo Stato abbia il compito di tutelare i cittadini onesti da questo grande inganno perpetrato ai danni della società! Si tratta di associazione per delinquere finalizzata alla truffa e realizzata tramite false attestazioni da parte di pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni. Nel codice penale esistono gli strumenti di legge necessari: artt. 416 cp; 496 cp; 515 cp; 517 cp; 640 cp. E’ necessario soltanto che la Magistratura si convinca dell’importanza del problema e si decida finalmente ad agire.
Si potrebbe cominciare con un’interrogazione parlamentare e chieder conto dei criteri con cui vengono scelti gli artisti che poi partecipano alla Biennale di Venezia, per poi allargare il campo d’azione a tutte le iniziative falsamente culturali con cui viene sprecato il denaro pubblico in Italia. I critici, i direttori di museo, i curatori delle grandi mostre pubbliche, devono essere chiamati a rendere conto del loro operato e destituiti. Bisogna restituire agli artisti onesti il diritto di esprimersi liberamente e di vivere, grazie alle loro opere, in un mercato dell’arte ripulito dalla falsità e dall’ipocrisia attualmente dominanti.
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