lunedì 7 aprile 2014
COME SONO DIVENTATO PITTORE
La mia famiglia era ingenua e di arte non capiva nulla. Per padre e madre il pittore significava morto di fame, fallito. Non intendevano sacrificarsi per poi assistere ad un colossale fallimento per il figlio. Loro si sacrificavano perche’ il figlio avesse un titolo di studio che garantisse lavoro eterno e sicuro, con stipendio fisso e certo. Tutto il contrario di quello che la tradizione voleva che il pittore fosse una vera catastrofe: un povero Cristo senza alcuna sicurezza economica. Mi obbligarono a frequentare il liceo scientifico il cui preside mi fece fare delle mostre personali nell’ambito della scuola. Sempre nei ritagli di tempo dipingevo. Finito il liceo fui obbligato a cercarmi un lavoro. Passarono anni in una inutile ricerca . Lavoravo per un certo periodo di tempo saltuario e solo piu’ tardi entrai a far parte di una grande azienda e riuscii addirittura a sposarmi. Il lavoro era sempre incerto finche’ mia moglie mi convinse a dedicarmi per sempre con estremo ritardo alla pittura: fu la mia salvezza.
Fra i quadri dipinti nei ritagli di tempo libero voglio ricordare un grande arlecchino che tutt’ora conservo appeso al muro della mia abitazione.
Il dipinto venne effettuato su una tela di sacco perche’ i miei negavano i soldi necessari all’acquisto del materiale necessario per dipingere. Cioè una vera tela. Mio padre mi negava i soldi necessari all’acquisto dei colori e mi costringeva a farmi i colori con olio di lino cotto e polveri colorate utili ad imbiancare i muri di casa. Se devo la mia salvezza la devo solo alla santa di mia moglie Marisa.
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