mercoledì 19 febbraio 2014

UBRIACHI A LEGNANO - ANNI '40

W IL VINO Ah, gli ubriachi! Oggi chi li vede più? Sono una razza scomparsa, del tutto estinta. Oggi esistono gli “etilisti” che sono ben altra cosa. Dovete sapere che alla mattina presto i lavoratori partivano in sella alla bicicletta, sicuri di sé, e viaggiavano ben bene dritti ed accorti. Alla sera però, dopo le cinque e mezza li ritrovavi tutti a piedi guidati dalla bicicletta che faticava non poco a ritornare a casa, trascinando attaccati ad una manopola del manubrio quello che alla mattina era il padrone ed alla sera diventava un avanzo di osteria o di “CIRCOLO DELLA PACE E FRATELLANZA” o “CASA DEL POPOLO” o “DOPO LAVORO”. Ogni tanto il residuo di padrone scivolava in avanti o indietro ed era sempre la bicicletta che conduceva a fatica il malridotto. Quante offese sopportava, povera bicicletta! Non era colpa dell’avvinazzato se l’andatura era a rotazione da una parte o dall’altra della strada, con ritorno all’indietro, pur con una lenta progressione verso l’ovile. Si sentivano imprecazioni tipo: “Dove vai, troia, vacca di una troia! Devi andare dritta, la sai la strada!”. Poveretta, la bicicletta si sforzava di tenere in piedi quel rudere a due gambe, che parlava da solo oppure ce l’aveva con qualcuno che non si vedeva. La bicicletta, brava bestia, sopportava e cercava di tirare innanzi, anche sulle salite, trascinandosi dietro quel peso morto di ubriacone. Il raro traffico automobilistico sul Sempione aveva continui rallentamenti, magari perché due dopolavoristi avevano incrociato le biciclette e queste bestie non si ricordavano più da che parte andare. Qualche poveretta, stremata, non ce la faceva più e si accasciava sulla strada, trascinando anche l’avvinazzato. Qualcuno si addormentava sul posto e dovevano spostarlo sul bordo della strada assieme alla sua generosa schiava. Qualche altro era soccorso da volontari che lo tenevano sottobraccio mentre lui sgambettava come se dovesse salire le scale. Altri ubriachi urlavano, bestemmiavano da far paura: riuscivano ad infilare la porta del cancello sotto la vigile attenzione di noi bambini che scommettevamo quando il disgraziato avrebbe preso una “craniata” colossale contro il duro legno del cancello. Raramente ci era data la soddisfazione di vedere la craniata desiderata ed anche quando succedeva, dopo qualche secondo l’ubriaco era già in piedi, si fa per dire. Tuttavia l’affetto familiare soccorreva tutti questi energumeni e le mogli con il viso tra il vergognoso e l’addolorato, riuscivano, anche se a fatica, a riportare tra le mura domestiche la vittima del capitalismo, che per dolore si riduceva così nel vano tentativo di dimenticare i padroni oppressori che lo costringevano a lavorare. Tra gli ubriachi si doveva fare delle distinzioni: c’era quello simpatico, che faceva simpatiche battute sulle corna messegli dalla moglie per colpa della suocera, disgrazia della società umana; c’erano quelli che riuscivano in genere ad essere riportati dalla fedele bicicletta fino alla scala dove abitavano, a questo punto, però, la bicicletta sveniva ed allora scendevano i loro congiunti ed a furia di spintoni e sollevamento pesi li collocavano a letto vestiti e già pronti a ripartire per il lavoro l’indomani mattina, freschi e pimpanti a cavallo della fedele “due ruote”. C’erano poi ubriachi cattivi che mettevano paura e che preferisco dimenticare. Il trionfo degli ubriachi avveniva domenica pomeriggio. Alla mattina, tutti ben lavati e ben vestiti frequentavano la chiesa, dove stavano compunti a dormire. Dopo la consueta passeggiata con il vestito della festa per il rientro a casa, gustandosi con la vista lo splendore delle femmine che esponevano il campionario della loro eleganza e la vistosità delle forme e delle andature, alle dodici e mezza in punto tutti si buttavano sulla tavola riccamente imbandita con polenta ed uccelli scappati, pezzi di maiale che avvolgevano ripieni ricchi di prezzemolo ed altro, tenuti insieme da stecchini di legno, tracannando un bottiglione di vino nero con la scritta Barbera o Barbacarlo o Freisa, fabbricato a Rho verso Milano, poi polenta arrostita con gorgonzola ed alla fine noci dure da spaccarsi con i denti. Dopo l’abbondante pranzo, si ascoltava la radio e ci si addormentava per qualche minuto, stesi sul sofà. Poi via, dagli amici all’osteria a giocare a carte e a bere vino nero pugliese, tanto duro e pesante da assomigliare all’olio di fegato di merluzzo colorato di nero. Alla fine, verso le sei della sera, ecco apparire le prime difficoltà: le sedie sono incollate al sedere, le gambe non rispondono ai comandi, ci si appoggia al tavolo e con la forza dei gomiti si riesce a stare in piedi. Già si sbaglia la porta per uscire e si prendono le prime capocciate. Poi, attaccandosi ai muri riescono all’aperto su un marciapiede affollato da centinaia di uomini vestiti di nero per la festa ma con vistose distorsioni di andatura. Le prime difficoltà per orientarsi verso la direzione da prendere, i primi scontri abbracci, i primi saluti distorti da una bocca che non si apre nel verso giusto, mentre aliti fetidi stordiscono i presenti, il colletto della camicia aperto e a sghimbescio, la cravatta slacciata, la giacca aperta ed aperta anche la patta dei pantaloni. Un passo incespica nell’altro ed incomincia la dura lotta della sopravvivenza. Le strade brulicano di migliaia di ubriachi. Le donne si fanno il segno della croce ed alzano gli occhi al cielo e noi bambini facciamo scommesse su quanti riescono a ritornare a casa oppure s’addormentano per strada. Di volontari per soccorrerli ce ne sono pochi, perché gli “astemi” sono rari. Qualcuno s’appoggia con il braccio al muro e vomita, qualche altro canta a squarciagola e c’è persino qualcuno che riesce a montare in bicicletta. Dal mio balcone controllo che anche mio padre non sia presente nella marea degli ubriachi. Purtroppo non è così: laggiù, all’incrocio fra via S. Francesco d’Assisi e via C. Porta, c’è una figura familiare che sbaglia la curva, ritenta, cade, si rialza. Cade ancora. Allora io mi precipito per le scale, corro incontro a mio padre, afferro il manubrio della bicicletta e lui mi dice con un sorriso distorto: “Che fai, Pelandra? non vedi che mi fai cadere?”. Parlando di ubriachi voglio raccontare un aneddoto che un visitatore di una mia mostra di pittura mi confidò recentemente. Al suo paese, questo signore oramai con i capelli bianchi, faceva parte integrante dell’organizzazione clericale ed operava in stretta relazione con il prete padrone. Era quindi quello che si può definire un bravo cristiano. Tuttavia la parte selvaggia ed animale di tutti i bambini e ragazzi era sempre all’erta e pronta a combinarne di tutti i colori. Viveva in questo paese della provincia di Cremona una brava persona, umile, zoppa, mutilata di una gamba, che svolgeva per tutta la settimana il suo onesto incarico di netturbino comunale. Era dotato di carretto, scopa e paletta per raccogliere l’immondizia. Svolgeva bene con coscienza il suo lavoro e manteneva pulite le strade del paese per tutta la settimana, con la simpatia della cittadinanza e l’affetto dei ragazzi. Arrivata la Santa Domenica, il “GAMBETTA” la celebrava come era d’abitudine tra il popolo: si prendeva una sbronza totale, una “ciucca” bestiale, tale da scaraventarlo per terra, farneticante ed ignaro di tutto quello che lo circondava o succedeva. I santi bambini dell’oratorio, sempre pronti alla preghiera, alla confessione ed a tutti i riti sacri cui obbedivano con fervore, a quella vista dimenticavano tutti gli impegni cristiani. I chierichetti buttavano via le sottane d’ordinanza, abbandonavano chiesa ed oratorio ed in preda a furia satanica, saltellando di gioia in un rito orgiastico liberatorio, caricavano il poveretto sul suo carretto dell’immondizia e lo spingevano a tutta velocità per le strade del paese, in una sarabanda di urla, lazzi e risate sguaiate da far invidia ai “sabba” delle streghe. Al termine della corsa, lo scaricavano nell’immondezzaio, quindi lo tiravano su di nuovo, lo ricaricavano nel suo carretto e via di nuovo per le vie del paese finché, stanchi per il gioco satanico, non lo riconducevano nella sua baracca fuori dal paese e ve lo scaricavano come immondizia. Diceva questo mio visitatore che il poveraccio si svegliava al lunedì mattina tutto pesto e sanguinante ma non si ricordava assolutamente come si poteva essere prodotto tutte quelle graffiature e lacerazioni che si ritrovava sul corpo ed in particolare sul volto. Riprendeva con serenità il suo lavoro per tutta la settimana fino all’arrivo della domenica, giorno di libertà per lui da sempre santificata tracannando tutto il vino che gli era possibile. Di nuovo la banda clericale si scatenava nel solito rito e né il prete né le autorità avevano mai avuto nulla da obiettare. Venne il giorno in cui il povero “Gambetta” tirò le cuoia, da solo, nella sua baracca. I ragazzi, santi per le giuste frequentazioni clericali, anche se talvolta crudeli come solo i ragazzi sapevano essere, amavano a loro modo questo relitto della società e si preoccuparono di andare a vedere come mai era assente dalla scena il loro “Gambetta”. Accortisi ed addolorati della sua dipartita, corsero dal prete perché gli desse almeno l’estrema unzione. Il prete, schifato, non ne volle sapere, con un disinteresse oltraggioso che scatenò una vera e propria ribellione nei ragazzi. Rimproverarono aspramente il prete che, quando stava male il riccone del paese, andava almeno due volte al giorno a confortarlo con tanto di carrozza e cavalli e che lo seguì salmodiando e con tutti i riti immaginabili fin nella tomba ed anche dopo fece più di quanto ci si potesse aspettare da un prete per un defunto. Non capivano i ragazzi perché per un poveraccio, dedito per tutta la vita a raccogliere l’immondizia, il prete non voleva nemmeno scomodarsi ad andare a benedirlo. Il prete non andò nemmeno a quello che doveva essere il suo funerale, perché i ragazzi caricarono la salma su una carriola a mano e la portarono al cimitero, dove una cassa comunale per i poveri l’accolse e fu sotterrato. Per giorni e giorni i ragazzi dell’oratorio protestarono col prete e minacciarono sciopero ad oltranza, finché, qualche giorno dopo, il prete si decise sotto la minaccia dei ragazzi ad indossare la stola per l’occasione ed a recarsi di malavoglia sul tumulo sconsacrato del povero “Gambetta”. Due parole in latino, due spruzzate col pennello delle benedizioni e subito dopo egli andò a far visita ossequiosa ai ricconi del paese che avevano male ai calli. La storia continuò da parte del visitatore della mia mostra e si addentrò profondamente nel mondo dell’alta aristocrazia clericale parlando di illustri cardinali e persino di un Papa. Tuttavia temo seriamente per la mia incolumità personale ed evito accuratamente di narrare ciò che le mie orecchie hanno sentito. Dirò una sola cosa che riguarda un grande Papa. In sentore di morte, si attaccava con frenesia alle maniche dei santi medici che lo avevano in cura e gridava in dialetto lombardo “fatemi star qui, ché qui si sta bene e non ho voglia di andare di là! Uè, avete capito? Voglio star qui perché è qui dove si sta bene, avete capito?” Il mio narratore giura di aver sentito raccontare questo episodio dalla bocca del sacro dottore personale che ebbe in cura il sant’uomo vicario di Cristo in terra. Lascio a lui tutta la responsabilità dell’affermazione e non saprei nemmeno riferire il nome dell’anziano fedele uomo di curia, che per tutta la vita ha curato il patrimonio e gli interessi del clero del nord. Se involontariamente ho commesso peccato, sono pronto a pentirmi, purché non mi attacchino ad un palo in piazza e non facciano di me un bel falò. Deo gratia, mi pento, mi pento e faccio penitenza. Appena a casa mi cospargerò il capo con la cenere, mi infliggerò il cilicio, dirò duemila preghiere, andrò a confessarmi e farò la comunione, se mi assolveranno dai peccati così commessi che sono ben più gravi rispetto a quanto vigliaccamente si sussurra tra le fila di un partito politico e cioè che un certo cardinale trafficava e favoriva il commercio delle armi pesanti, bombe, missili, aeroplani, carri armati e via dicendo.

lunedì 17 febbraio 2014

RICORDI DELLA MIA INFANZIA A LEGNANO

LA CHIESA DEI FRATI Provenendo dal Sempione e diretti alla Saronnese, sulla destra sorge imponente la chiesa comunemente chiamata dei frati. Un vanto di questo complesso religioso era il coro con delle splendide voci ed un fantastico suono d’organo. C’era uno splendido apparato di voci bianche che mi entusiasmava e mi pareva d’essere gia’ in Paradiso. Solo in Francia a Parigi la Basilica del Sacro Cuore, almeno per l’organo mi ha ridato la stessa emozione. In omaggio a tanta bellezza, mai piu’ ripetuta ho disegnato un coro di voci bianche! LE MILLE FARFALLE DAI FANTASTICI COLORI. Alle case popolari di via Carlo Porta 56 , i costruttori avevano lasciato ai fianchi di esse una lunga e larga striscia di rifiuti che con l’andare del tempo erano stati coperti dalla terra e dalla vegetazione. A nord delle montagnette si profilavano fin oltre il campo del Bernocchi fino all’autostrada per me piccolo, immense stesure di prati verdi. Come la scienza moderna ha dimostrato, crescevano una infinita’ di erbe ed arbusti selvatici secondo natura e lo spettacolo era magnifico. Non sono all’altezza di elencare la miriade di pianticelle selvatiche e di fiori spontanei, confermo solo che lo spettacolo era variegato e coloratissimo. Sara’ forse perche’ sono portato dalla natura al colore, io ero affascinato da quel paradiso di piccole forme e colori. Le farfalle poi completavano la scena idilliaca: erano centinaia di specie diverse, anzi forse migliaia e chi ha fantasia può immaginare quello splendido spettacolo. L’equilibrio della natura era garantito dalla presenza di un numero grande di uccelli che si nutrivano di parassiti per cui mi pareva di essere nel giardino dell’Eden. Un amico ha scritto recentemente che dove vive lui ci sono ancora le pecore che danno luogo a infestazioni di insetti noiosi, tanto da desiderare che le pecore andassero altrove. La scienza moderna riversa la colpa sull’uomo e precisamente su cacciatori che hanno sterminato o quasi gli utilissimi uccelli e l’estirpazione di gran parte di erbe selvatiche che nutrivano insetti e nemici degli insetti per cui e’ venuto a mancare l’equilibrio naturale compensativo. Meno erbe e fiori selvatici e quasi la totale scomparsa degli uccelli ha permesso lo sviluppo di insetti infestanti, lontani dalle famose griselle o maggiolini che noi bambini di una volta cacciavamo a mani aperte e ci divertiva il solletico che le loro zampette facevano sulle palme delle nostre piccole mani. Se allora fossi stato capace come ora di colorare i miei disegni come lo sono ora, avrei potuto mostrarvi il fantastico volo di mille colori delle farfalle di allora. Forse la solitudine e la mancanza di giocattoli mi portavano a pensare dentro di me su tutto quello che vedevo ed amavo tutti gli animali a tal punto da parlare con i cavalloni aggiogati ai carri che si fermavano in attesa d’ordine di trascinare i pesanti carichi con le famose parole :”VA LA’ UH!!” IL GIOCO DEL CERCHIO Per i bambini ricchi i cerchi in legno leggero e stretti di spessore erano gia’ pronti nei negozi di giocattoli. Per i figli di operai andavano bene i cerchioni delle ruote di bicicletta. Per chi non aveva niente come me stava a guardare. Il gioco consisteva nel far correre il cerchio su’ e giu’ per le strade. CIRCO EQUESTRE A LEGNANO FINE ANNI ‘40 Come gia’ detto il circo equestre era il massimo dei divertimenti per noi bambini di tutte le classi sociali. Mi affascinavano i cavalli e in particolare l’abilita’ di alcuni coraggiosi che facevano acrobazie sdraiati lungo il fianco dell’animale al galoppo ed agganciati ad esso solo per le staffe. Sul dorso dei cavalli si esibivano gentili fanciulle che accennavano a qualche passo di danza mentre il cavallo percorreva la pista a lui riservata. Subito a casa tentavo di disegnare la ballerinetta che danzava con l’ombrellino in mano sulla groppa del cavallo. LA PECORA Sul prato dinanzi a casa mia stazionavano per qualche giorno numerose pecore ed ero incuriosito dal taglio della loro lana. I bambini si sa sono curiosi ed anch’io ho voluto provare a tagliare la lana di una pecora con l’aiuto del pastore.

domenica 16 febbraio 2014

IL CAVADENTI DI LEGNANO - ANNI '4O

I DENTISTI DI LEGNANO Che io ricordi, in tempo di guerra e subito dopo c’era solo in corso Garibaldi lo studio dentistico del dottor Guerra. Molto piu’ tardi appaiono altri dentisti ma per lungo tempo, in periferia, circolavano personaggi inquietanti ai quali ricorrere spartanamente per risolvere i gravi problemi della bocca. Mi ricordo che alle case popolari di via Carlo Porta 58 ogni tanto faceva la sua apparizione fin dalla mattina presto un personaggio con giacca bianca da barbiere ed uno straccio bianco sulle spalle. A voce alta gridava “barbiere, dentista!” Sembra a noi una cosa incredibile ma allora lo stato di necessita’ portava ad accettare anche queste figure tutto sommato risolutive per certe situazioni! Il personaggio portava con se una sedia e si piazzava dinanzi alla Cooperativa Avanti, che disponeva di uno spazio asfaltato. I clienti non mancavano e ne ricorso uno con le mani sulla guancia che sembrava disperato. Il personaggio in bianco lo faceva sedere sulla sua spartana sedia quindi dopo una rapida ispezione chiedeva ai curiosi che si erano adunati intorno di aiutarlo nel lavoro: bisognava strappare un dente malandato ed infiammato. Alcuni forzuti curiosi si offrivano di trattenere il disgraziato per le spalle, dopo che era stato legato lo straccio bianco che normalmente portava a tracolla. La paura della vittima era palese ma l’operatore era sicuro di se e chiedeva agli improvvisati aiutanti di tenere ben fermo il malcapitato dolorante. Io ero sul balcone della mia casa e non potevo vedere quali arnesi adoperasse ma notavo la rapidita’ con cui infilava tale attrezzatura nella bocca del malcapitato. L’operatore in bianco per essere sicuro dell’immobilita’ della vittima, trattenuta ferma dalle braccia degli improvvisati aiutanti, gli metteva un ginocchio sulla pancia e con gesto oramai sicuro per l’esperienza, gli estraeva qualcosa che da lontano sembrava un dente, accompagnato da sangue. Il povero malcapitato era riuscito a sopravvivere e bestemmiando si toccava la bocca. L’operazione era riuscita e qualche moneta era stata conferita al dottore che intanto gridava: avanti un altro! Inutile dire che lo straccio bianco non era più bianco!