sabato 19 maggio 2007

RICORDI, LIBERE RIFLESSIONI, ED ISTANTANEE DELLA VITA QUOTIDIANA DI TEMPI PASSATI


C’era una volta un bravo falegname di nome Pietro, che viveva a Intra sul lago Maggiore. La sua bottega stava sulla strada che dal lungolago, dopo la svolta, corre dritta fino a Trobaso, costringendo il vecchio tramvai ad ansimare per superare la salita e lanciarsi poi verso la bella Premeno, lassù tra le verdi colline.
Fino a qualche tempo fa la si poteva riconoscere ancora per le sue vecchie porte di legno ad ante, apribili a seconda della necessità. Quella era anche la sua abitazione ed è li che sono vissuto per i primi anni della mia vita. Dalla strada, per entrare in casa, si dovevano scendere due alti scalini e poi via, stanza dopo stanza, si arrivava al laboratorio: un vero trionfo di bianchi trucioli di legno dovunque, banconi, morse, scalpelli, sgorbie, raspe, saracchi, seghe, mazzuoli, trivelli, pialle, martelli e quant’altro serviva per il lavoro del nostro Geppetto. Nonno Pietro rimaneva poco tempo con me a lavorare nella sua fabbrica dei sogni. Doveva viaggiare, spingendo il carretto, carico delle sue opere e dei ferri del mestiere, per consegnare il lavoro svolto e per ricercare nuove commissioni. A volte stava lontano parecchi giorni e notti, perché si inoltrava nelle valli vicine, dal Monterosso fino a Domodossola. Il nonno aveva una moglie e quattro figli, tre maschi ed una femmina. Quella donna era mia madre. Mio padre veniva dalla Sicilia, da uno splendido paese barocco dal nome arabo, Scicli, sul fondo di una profonda valle scavata da acque impetuose in tempi lontanissimi.
Che differenza tra le città del lago Maggiore e le bianche piazze e strade assolate di Scicli! Splendide chiese di pietra bianca all’esterno ed all’interno, come del resto bianche erano le case a terrazzo per raccogliere l’acqua piovana, così necessaria in paesi piuttosto aridi. Curioso il fatto che i Siciliani tengono ancora oggi una anguilla viva nel serbatoio d’acqua per purificarla e renderla potabile. Mio padre era l’unico figlio di contadini senza terra, senza casa e senza pane, come molti all’inizio del secolo scorso. Suo padre era andato con la nave come emigrante in cerca di fortuna in Argentina. La nonna Carmela ed Ignazio, mio padre, allora bambino, venivano ospitati una settimana da un parente ed una settimana dall’altro, dormendo per terra su pagliericci che erano sacchi riempiti di paglia. Appena quattordicenne, mio padre si trasferì insieme a suo zio, guardia carceraria, sulle rive dello lago maggiore. Dopo qualche anno divenne guardia municipale in una piccola località del lago chiamata Feriolo e successivamente a Verbania-Pallanza. Non c’è dubbio che quell’uomo dalla carnagione scura, gli occhi chiari, l’aspetto longilineo con addosso la divisa potesse suscitare fascino ed interesse e mia madre se ne innamorò perdutamente. Si sposarono ed il 21 luglio 1939 io nacqui e fui battezzato con il nome di Pietro e Andrea nella chiesa di S.Leonardo. Iniziava la seconda guerra mondiale. Mio padre si trasferì con la famiglia a Legnano e si arruolò volontario per servire la Patria in guerra, lasciando moglie e due figli senza soldi e senza lavoro. Era un brav’uomo, ma non aveva un carattere dolce ed aveva appreso la disciplina adatta alle guardie carcerarie in epoca fascista. Torniamo ora al laboratorio di nonno Pietro. Quale gioia essere tra i piedi del mastro falegname! Tentare di segare, martellare, raccogliere trucioli da inserire nella stufa e nel camino di casa per accendere il fuoco e poi poter accompagnare il buon vecchio nei suoi piccoli viaggi ad Intra, a consegnare botti, a valutare il vino, a dar consigli, su e giù per le salite accanto al carretto che il nonno spingeva a mano. Quando il nonno era assente, ne sentivo la mancanza e mi consolavo disegnando sui muri e sui marciapiedi con il gesso avanzato dai muratori. La mamma lavorava a Legnano e la nonna mi portava spesso con sé in questa città industriosa, popolata da un’infinità di tute blu, dalle loro biciclette e da tanti grossi cavalli che trainavano carri di legno dalle ruote gigantesche. La mamma abitava alle case popolari di via Carlo Porta n. 56, a circa due chilometri dal centro cittadino, in mezzo a prati coltivati e nei pressi dalla strada provinciale saronnese e del Sempione. Poco distante scorreva l’Olona, già nera e sporca per i rifiuti industriali. Erano due grossi palazzoni che disponevano di cortili interni per far giocare i bambini. Di questi poi ce ne erano una valanga e la compagnia era sempre allegra. Con la nonna andavo a fare la spesa , specialmente al mercato del centro ed i miei occhi avidi si impadronivano di tutto quello che vedevo. Tornato a casa, aspettavo che la nonna ritornasse dalla cooperativa Avanti con qualche foglio di carta gialla ed azzurra e su di essa disegnavo tutto ciò che la mia fantasia mi spingeva ad esprimere. In mancanza di carta, usavo il gesso avanzato dai muratori per disegnare sul cemento del cortile. La carta veniva poi usata per accendere il fuoco nella stufa, oppure veniva bagnata e compressa a palla in maniera che indurendo divenisse buon combustibile per i giorni a venire. A Legnano, il direttore tecnico della manifattura Cantoni era sposato con una nobile signora di Pallanza. La nonna frequentava la sua villa e lì giocavo con Mariolino, piuttosto vivace e birichino. La signora si divertiva a vedermi disegnare e di tanto in tanto mi regalava dei libri d’arte, che arrivavano al marito collezionista. Questi libri avevano le immagini stampate solo su una facciata del foglio e sul retro era bianca: ERA SU QUELLA FACCIATA LIBERA CHE IO DISEGNAVO e così sono giunti fino ai nostri giorni alcuni dei miei disegni.

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