venerdì 21 marzo 2014

VITA A PALERMO

A quei tempi Palermo era sì una splendida città artisticamente valida ma sporca come non è possibile immaginare. Pensate che per convincere mio padre, che in risposta mi aveva gratificato con ogni epiteto possibile e addirittura minacciato di morte perché dimostravo di offendere lui, che era siciliano, ho dovuto spedirgli alcuni giornali locali che si scandalizzavano appunto per la straordinaria ed inimmaginabile sporcizia di Palermo. Non servì a nulla, perché diceva che era tutta propaganda politica per denigrare i Siciliani e mi minacciò di gravi conseguenze se avessi continuato su questo argomento. Mio padre, poveretto, viveva di ricordi e probabilmente prima della guerra la grande città poteva anche essere stata pulita ed ordinata. In quel tempo era un macello: in mezzo alle strade principali facevano bella mostra di sé water interi o rotti, rimasti lì a prendere il sole per tutto il tempo della mia permanenza. Dinanzi al bellissimo Politeama non si poteva passare per via di uno straordinario puzzo di orina e di altre gradevolezze dovute ad annate di sterco, mai pulito. Nel raggio di cento metri c’era il rischio che anche i cavalli svenissero. Probabilmente i cittadini erano abituati e si fermavano proprio lì con il filobus, come se fosse tutto assolutamente normale. Non c’era un angolo, una panchina dove non vi fosse immondizia. Per le strade non si poteva passare perché dalle finestre piovevano improvvisamente escrementi di giornata. L’igiene era forse qualcosa di extraterrestre. In caserma non c’erano sapone, acqua, asciugamani. Ci si lavava con bottigliette d’acqua minerale o gassosa comprate allo spaccio. Nelle camerate da duecentoquaranta uomini e otto cessi, si trovava di tutto: oltre alla puzza dei gabinetti (tutti senz’acqua) ti stordiva quella ancora più tremenda dei piedi neri, con una flora micotica ed animale tale che gli scarponi camminavano da soli. Di notte, nelle camerate, c’era un russare spaventoso, una puzza incredibile e persone sonnambule che spaventavano i poveri marmittoni. Di tanto in tanto sentivo uno scalpiccio sospetto: aprivo un occhio e vedevo i miei scarponi che saltellavano verso il gabinetto. Non erano fantasmi ma simpatici toponi di fogna che cercavano di portarmi via quei puzzolenti e grossolani scarponi che tenevo sotto la brandina, assieme a quelli dell’inquilino che mi dormiva sul letto di sopra. Era simpatico il topone ed io lo lasciavo fare: aveva una tecnica intelligente. Si infilava con la testa nella scarpa e con le zampette posteriori spingeva verso i gabinetti la sua preda. Mi divertiva l’impegno dell’animale ed il suo senso d’orientamento. Lo seguivo a piedi nudi fino quasi dentro il buco del gabinetto, nel quale il topo aveva intenzione di traslocare gli scarponi. Lasciavo fare fino a quando il tutto stava per sparire. Allora afferravo un lembo dello scarpone e con delicatezza lo traevo fuori dal gabinetto. Quindi lo riportavo ai piedi della mia brandina, in attesa di un altro tentativo di furto. Ho sempre amato gli animali e quei topi non facevano eccezione. A Palermo non esisteva igiene alcuna e chi sopravviveva forse era idoneo alla vita militare. Difatti, all’accoglienza in caserma i marescialli gridavano a gran voce: “Qui dovete imparare a morire!”. Oramai ero convinto di essere all’inferno e di notte ero continuamente svegliato da urla disumane di gente che era morsicata da topi simpaticissimi ma grandi come cavalli. C’erano poi gli eroi che sognavano di innestare la baionetta e correvano per la camera ad infilzare i topi o i nemici immaginari. Ho contato che su duecentoquaranta uomini, almeno duecento erano disturbati mentali. Almeno cento parlavano nel sonno con tonalità e linguaggi diversi. C’era chi era convinto che la naia fosse finita ed urlava: “È finita! È finita! Domani tutti a casa!”. Proprio sopra, a fianco e di fronte a me c’erano energumeni che andavano in "sonnambula" e mimavano di innestare la baionetta, quindi menavano colpi a destra e a manca. Qualche volta qualcuno, sempre in stato sonnambolico, faceva duelli immaginari con le baionette e c’erano anche quelli che tifavano per l’uno o per l’altro. Si facevano scommesse mai pagate, causa di pestaggi alla Bud Spencer. I soliti simpaticoni “nonni” facevano scherzi a non finire, preparavano lenzuola corte, docce di pipì in mancanza d’acqua e quanto la loro mente devastata poteva suggerire. Era tanta la stanchezza che io mi addormentavo sul campo delle esercitazioni. Dopo aver contato i presenti, i caporali si divertivano a dare la caccia ai disertori ,non mi ricordo se anche con i cani e con l’ausilio di istruttori ex nazisti. Calci nella schiena con la delicatezza di aristocratici badilanti, qualche "baionettata" nella schiena e se proprio non eri già morto, ti trascinavano nella branda. Proprio la mia sonnolenza mi salvò dal sentire tutto quello che questi figli della patria erano chiamati a fare con la protezione della mamma esercito. Mamma e papà, così si definiva il comandante generale del campo. La magra paga era sempre totalmente derubata dai sottoufficiali. Essi viaggiavano ed entravano in caserma con auto da capogiro, super lusso, evidentemente acquistate con lo stipendio dello Stato. Fin dal primo momento si accusò fame, poi ancora fame, infine sempre fame. Per fortuna chiesi ad un ufficiale, che aveva notato la mia vena artistica, un blocco da disegno di carta liscia. Con un lapis feci ritratti a tutti i commilitoni che volevano mandare a casa un loro ricordo e così, a millecinquecento lire per ritratto, riuscii a mangiare almeno una volta al giorno e ad andare a puttane. L’onore delle fanciulle era tale che mentre i militari scendevano verso il centro di Palermo, appena ci si avvicinava ad una finestra o porta, questa veniva subito chiusa, per poi riaprirsi dopo il nostro passaggio. L’onore è comunque molto opinabile: quello che va bene per uno non va bene per l’altro. I militari sapevano dove andare a sfogare il forte prodotto ormonale, tipico della gioventù. Il padrone di casa gestiva il suo “onore” dirigendo il traffico come ogni maitresse. Dava ordini alla suocera, alla figlia ed alla nipote di dieci anni. Se un membro femminile non soddisfaceva o si lamentava, ecco la punizione di un sonoro schiaffone. Naturalmente la più ricercata era la giovane ma non riuscii mai a farmela. Mi toccò, con schifo, la suocera. Comunque a furia di fare disegni e farmi apprezzare, finii a Savona, a Genova e poi a Milano all’ospedale militare, grazie alla simpatia di una suora tanto amica di un maresciallo della questura, padre di una deliziosa fanciulla che tenevo nel cuore. Siccome sono moltissime le cose da raccontare, andrà a finire che ne salterò parecchie, comunque vi voglio descrivere due faccende causa di botte da orbi tra i poveri soldatini. La compagnia, alla quale mi onoravo di appartenere, era costituita da possibili “truppe d’assalto” dato che il più piccolo era un caporale e tutti gli altri partivano dal metro e ottanta per arrivare ai due metri ed oltre d’altezza. A vent’anni, si era tutti vigorosi e dotati di appetito. L’intelligenza e la serietà dei marescialli e serventi era così grande che distribuivano il rancio uguale tanto a quelli che erano alti 1,50 quanto a quelli che, senza contare l’altezza, si mangerebbero come niente un caporale al giorno. Vi erano lunghe tavolate e l’ordine era di aspettare il proprio turno. Va da sé che i primi si abbuffavano e gli ultimi restavano a bocca asciutta. Proteste verbali, minacce ed infine botte da orbi a non finire. Naturalmente punizioni e niente libera uscita: quindi fame ed altra rabbia portavano metà dell'esercito quasi a sbranarsi. Per fortuna io mi ero inventato una fonte economica con i miei ritratti e non partecipavo quasi mai ai pestaggi per poter uscire dalla caserma e quindi mangiare. LE DOCCE DELLA“SCIANNA”. Fonte d’odio terribile era la presa in giro di questi poveracci ridotti ormai all’esasperazione, sporchi, pieni di ogni lordura, ai quali veniva promessa la doccia. Li facevano denudare, insaponare e poi niente acqua. Bestemmie da competizione, minacce gravi e necessariamente via di corsa allo spaccio ove far debiti comprando acque minerali e gassose, con le quali tentare di togliersi il sapone. Altra presa in giro terribile era la pulizia delle stoviglie. Tremila uomini almeno che usavano la terra per sgrassare l’unto della “schiscetta” d’alluminio e poi zero acqua. La disperazione era massima, la volontà di massacro la si sentiva palpitare. Ma con fair play inglese i superiori dicevano che i panni sporchi si dovevano lavare in casa propria e che avrebbero spedito alla corte marziale chiunque avesse osato fiatare. Per dar l’esempio il signor Capitano ci riuniva e faceva la conta: se il disgraziato fosse stato tra i nomi segnalati dai caporali e sergenti carogna, per lui era finita. Gaeta per lui era la destinazione e disciplina di rigore era comminata agli altri. Tuttavia vedo che nessuno ancora oggi osa parlare di queste cose. Mi fermo all’ultimo evento. A Palermo, Il giorno di ferragosto, munito di qualche cinquemila lire guadagnate con la vendita dei miei ritratti, ho attraversato tutta la Sicilia per andare a trovare mia nonna a Scicli. Tornato alla sera, per paura del ritardo, punito poi severamente, mi feci trasportare da un taxi abusivo, che si fermò a suo piacere dove piacque ai due che lo conducevano. Mi venne chiesto di pagare ed io offrii un biglietto da cinquemila. Fiducioso aspettavo il resto, ma questi mi misero un coltello a serramanico alla gola e con l’aria tipica dei delinquenti affermarono: “Tu sei del nord e quindi devi pagare perché sei del nord. O vuoi un buco nella gola?”. Rinunciai all’intervento chirurgico non necessario e corsi dall’ufficiale di turno a raccontare trafelato ed emozionato quanto era successo. Aspettavo una risposta a mio favore ma il distinto ed onorevole militare mi disse lapidario: “Hanno ragione loro!” e così mi rassegnai e pensai solo ad evadere. Cosa che avvenne alla fine di settembre. A Savona trovai ufficiali galantuomini e marescialli e forza minore dello stesso identico stampo delle precedenti esperienze siciliane. Con l'aiuto di un bravo ed onesto galantuomo amante dell’arte, un maggiore dell'esercito, si riuscì a farmi ricoverare all'ospedale militare di Genova-Bolzaneto, tra matti veri e matti finti. Continuai a fare ritratti finché mi trovarono una vera gastroenterite che mi dava diritto a sessanta giorni di convalescenza. Terminata la convalescenza rientrai in forza all’ospedale di Baggio a Milano dove feci lo scritturale in molti reparti compreso quello psichiatrico.

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