martedì 23 settembre 2014
lunedì 22 settembre 2014
lunedì 7 aprile 2014
COME SONO DIVENTATO PITTORE
La mia famiglia era ingenua e di arte non capiva nulla. Per padre e madre il pittore significava morto di fame, fallito. Non intendevano sacrificarsi per poi assistere ad un colossale fallimento per il figlio. Loro si sacrificavano perche’ il figlio avesse un titolo di studio che garantisse lavoro eterno e sicuro, con stipendio fisso e certo. Tutto il contrario di quello che la tradizione voleva che il pittore fosse una vera catastrofe: un povero Cristo senza alcuna sicurezza economica. Mi obbligarono a frequentare il liceo scientifico il cui preside mi fece fare delle mostre personali nell’ambito della scuola. Sempre nei ritagli di tempo dipingevo. Finito il liceo fui obbligato a cercarmi un lavoro. Passarono anni in una inutile ricerca . Lavoravo per un certo periodo di tempo saltuario e solo piu’ tardi entrai a far parte di una grande azienda e riuscii addirittura a sposarmi. Il lavoro era sempre incerto finche’ mia moglie mi convinse a dedicarmi per sempre con estremo ritardo alla pittura: fu la mia salvezza.
Fra i quadri dipinti nei ritagli di tempo libero voglio ricordare un grande arlecchino che tutt’ora conservo appeso al muro della mia abitazione.
Il dipinto venne effettuato su una tela di sacco perche’ i miei negavano i soldi necessari all’acquisto del materiale necessario per dipingere. Cioè una vera tela. Mio padre mi negava i soldi necessari all’acquisto dei colori e mi costringeva a farmi i colori con olio di lino cotto e polveri colorate utili ad imbiancare i muri di casa. Se devo la mia salvezza la devo solo alla santa di mia moglie Marisa.
domenica 6 aprile 2014
DISEGNI DELLA MIA INFANZIA
1 -La pantera nera. Da un fumetto il ritratto della pantera nera.
2 - Il topino!
Pazienza non tollerare i grossi topi ma i piccoli e bianchi non fanno alcun male: cercano solo di mangiare!
3 - Camminare sulle mani. Da un libro ho tratto questa immagine!
4 - Testa di leone!
Sempre tratto da un libro, superba opera di DIO!
Perche’ ucciderlo?
5 - Arlecchino colorato! Derivato dalle maschere di carnevale!
sabato 5 aprile 2014
RES NULLIUS, CIOE' COSE DI NESSUNA PROPRIETA'
Questo e’ il principio della libera caccia agli animali in liberta’. Si tratta secondo me di un grossolano errore. Se e’ vero che DIO e’ il creatore di tutto cio’ che esiste anche gli animali liberi e senza padroni umani sono figli e quindi proprieta’ di DIO. Quindi non vale il detto latino della libera caccia agli animali di nessuna proprieta’; di conseguenza e’ reato cacciare ed uccidere gli animali in liberta’! Perche’ sono figli di DIO.
mercoledì 2 aprile 2014
DISEGNI DELLA MIA INFANZIA
Lotta fra potenti.
Non sapendo come rappresentare l’eterna lotta fra potenti, ho pensato che l’aquila ed il leone fossero due combattenti agguerriti. Chi sara’ il vincitore? A mio avviso nessuno dei due perche’ entrambi dotati di armi micidiali!
Incontro con la vita.
Mi e’ sempre piaciuta la folla che da l’impressione della vita, della gioia del vivere.
I miei ricordi sono lontani ma ancora mi pare di rivedere i carabinieri in alta tenuta che passeggiavano lungo il lago. Posso sbagliarmi ma questi sono ricordi fissi nella mente. Evviva la gente!
Come l’umanita’.
Non sapendo come rappresentare lo sfruttamento umano e della natura ho pensato alla scrofa. Perche’ mai alla scrofa? Semplicemente perche’ questo animale e ‘ generoso nella produzione di figli
Destinati poi al macello. La scrofa e’ per me l’umanita’ che produce figli che poi vengono sfruttati sia nel lavoro sia nelle guerre ed in fine la stessa madre viene uccisa.!
Preparati alla morte!
La vanita’maschile fa si che gli abbigliamenti militari fin dall’antichita’ diano orgoglio al maschio che poi andra’ a morire in battaglia: orgoglio e morte!
martedì 1 aprile 2014
DISEGNI DELLA MIA INFANZIA!
domenica 30 marzo 2014
LA BUZZA DEL LAGO
Quando ero bambino ogni tanto vedevo il lago ricoperto da tronchi d’albero. Solo ora ho saputo che il termine ‘Buzza’ significa pieno di tronchi d’albero che vengono scaricati dai torrenti delle montagne che circondano il lago. Cioè in seguito a forti temporali i torrenti delle montagne scaricano nel lago tronchi d’albero.
L'UOMO E LA SCHIAVITU'
Da sempre l’uomo tende a fare schiavi sia gli uomini che gli animali. La frusta e le botte sono i mezzi da sempre usati dall’umanita’ e cosi’ avviene per gli animali da circo equestre. Le tigri vengono frustate e il domatore riesce a far eseguire all’animale quei movimenti che danno l’impressione che il domatore sia superiore all’animale. Io sono contrario alla presenza degli animali nei circhi equestri!
sabato 29 marzo 2014
DISEGNI ANNI '40 - '50
Legnano e il lustrascarpe. Nel centro della citta’ oltre agli scrivani c’erano anche i lustrascarpe che offrivano il loro lavoro per modiche cifre.
Sono stato parecchio tempo in Sicilia ed ho notato un paesaggio completamente diverso rispetto a quello del lago Maggiore.
Servizio taxi per le contadine di Massino di cui ho gia’ parlato.
Da un libro d’arte.
Ho sempre ammirato le opere classiche che ornano la nostra bella Italia e mi e’ sempre piaciuto copiare statue di angeli come quello sotto riprodotto.
Egoismo del mio gatto.
Non pago d’aver ucciso un uccellino che lo tiene in bocca, vuole impadronirsi degli altri uccellini che tentano di distrarlo affinchè liberi la vittima ma lui si vuol prendere anche tutti gli altri uccelli disperati che si offrono in cambio della vita del povero uccellino gia’ defunto.
NON HO MAI PIANTO TANTO!
A Castellanza, ai confini con Legnano, esisteva un cinematografo il cui nome era Castello.
Questo cinematografo era specializzato in romanzi d’amore che attraevano una grande quantita’ di donne di una certa eta’. Fra queste c’era anche mia nonna che come tutte le altre dicevano: non mi sono mai divertita tanto e non ho mai pianto tanto!
venerdì 21 marzo 2014
VITA A PALERMO
A quei tempi Palermo era sì una splendida città artisticamente valida ma sporca come non è possibile immaginare. Pensate che per convincere mio padre, che in risposta mi aveva gratificato con ogni epiteto possibile e addirittura minacciato di morte perché dimostravo di offendere lui, che era siciliano, ho dovuto spedirgli alcuni giornali locali che si scandalizzavano appunto per la straordinaria ed inimmaginabile sporcizia di Palermo. Non servì a nulla, perché diceva che era tutta propaganda politica per denigrare i Siciliani e mi minacciò di gravi conseguenze se avessi continuato su questo argomento. Mio padre, poveretto, viveva di ricordi e probabilmente prima della guerra la grande città poteva anche essere stata pulita ed ordinata. In quel tempo era un macello: in mezzo alle strade principali facevano bella mostra di sé water interi o rotti, rimasti lì a prendere il sole per tutto il tempo della mia permanenza. Dinanzi al bellissimo Politeama non si poteva passare per via di uno straordinario puzzo di orina e di altre gradevolezze dovute ad annate di sterco, mai pulito. Nel raggio di cento metri c’era il rischio che anche i cavalli svenissero. Probabilmente i cittadini erano abituati e si fermavano proprio lì con il filobus, come se fosse tutto assolutamente normale. Non c’era un angolo, una panchina dove non vi fosse immondizia. Per le strade non si poteva passare perché dalle finestre piovevano improvvisamente escrementi di giornata. L’igiene era forse qualcosa di extraterrestre. In caserma non c’erano sapone, acqua, asciugamani. Ci si lavava con bottigliette d’acqua minerale o gassosa comprate allo spaccio. Nelle camerate da duecentoquaranta uomini e otto cessi, si trovava di tutto: oltre alla puzza dei gabinetti (tutti senz’acqua) ti stordiva quella ancora più tremenda dei piedi neri, con una flora micotica ed animale tale che gli scarponi camminavano da soli. Di notte, nelle camerate, c’era un russare spaventoso, una puzza incredibile e persone sonnambule che spaventavano i poveri marmittoni. Di tanto in tanto sentivo uno scalpiccio sospetto: aprivo un occhio e vedevo i miei scarponi che saltellavano verso il gabinetto. Non erano fantasmi ma simpatici toponi di fogna che cercavano di portarmi via quei puzzolenti e grossolani scarponi che tenevo sotto la brandina, assieme a quelli dell’inquilino che mi dormiva sul letto di sopra. Era simpatico il topone ed io lo lasciavo fare: aveva una tecnica intelligente. Si infilava con la testa nella scarpa e con le zampette posteriori spingeva verso i gabinetti la sua preda. Mi divertiva l’impegno dell’animale ed il suo senso d’orientamento. Lo seguivo a piedi nudi fino quasi dentro il buco del gabinetto, nel quale il topo aveva intenzione di traslocare gli scarponi. Lasciavo fare fino a quando il tutto stava per sparire. Allora afferravo un lembo dello scarpone e con delicatezza lo traevo fuori dal gabinetto. Quindi lo riportavo ai piedi della mia brandina, in attesa di un altro tentativo di furto. Ho sempre amato gli animali e quei topi non facevano eccezione. A Palermo non esisteva igiene alcuna e chi sopravviveva forse era idoneo alla vita militare. Difatti, all’accoglienza in caserma i marescialli gridavano a gran voce: “Qui dovete imparare a morire!”. Oramai ero convinto di essere all’inferno e di notte ero continuamente svegliato da urla disumane di gente che era morsicata da topi simpaticissimi ma grandi come cavalli. C’erano poi gli eroi che sognavano di innestare la baionetta e correvano per la camera ad infilzare i topi o i nemici immaginari. Ho contato che su duecentoquaranta uomini, almeno duecento erano disturbati mentali. Almeno cento parlavano nel sonno con tonalità e linguaggi diversi. C’era chi era convinto che la naia fosse finita ed urlava: “È finita! È finita! Domani tutti a casa!”. Proprio sopra, a fianco e di fronte a me c’erano energumeni che andavano in "sonnambula" e mimavano di innestare la baionetta, quindi menavano colpi a destra e a manca. Qualche volta qualcuno, sempre in stato sonnambolico, faceva duelli immaginari con le baionette e c’erano anche quelli che tifavano per l’uno o per l’altro. Si facevano scommesse mai pagate, causa di pestaggi alla Bud Spencer. I soliti simpaticoni “nonni” facevano scherzi a non finire, preparavano lenzuola corte, docce di pipì in mancanza d’acqua e quanto la loro mente devastata poteva suggerire. Era tanta la stanchezza che io mi addormentavo sul campo delle esercitazioni. Dopo aver contato i presenti, i caporali si divertivano a dare la caccia ai disertori ,non mi ricordo se anche con i cani e con l’ausilio di istruttori ex nazisti. Calci nella schiena con la delicatezza di aristocratici badilanti, qualche "baionettata" nella schiena e se proprio non eri già morto, ti trascinavano nella branda. Proprio la mia sonnolenza mi salvò dal sentire tutto quello che questi figli della patria erano chiamati a fare con la protezione della mamma esercito. Mamma e papà, così si definiva il comandante generale del campo. La magra paga era sempre totalmente derubata dai sottoufficiali. Essi viaggiavano ed entravano in caserma con auto da capogiro, super lusso, evidentemente acquistate con lo stipendio dello Stato. Fin dal primo momento si accusò fame, poi ancora fame, infine sempre fame. Per fortuna chiesi ad un ufficiale, che aveva notato la mia vena artistica, un blocco da disegno di carta liscia. Con un lapis feci ritratti a tutti i commilitoni che volevano mandare a casa un loro ricordo e così, a millecinquecento lire per ritratto, riuscii a mangiare almeno una volta al giorno e ad andare a puttane. L’onore delle fanciulle era tale che mentre i militari scendevano verso il centro di Palermo, appena ci si avvicinava ad una finestra o porta, questa veniva subito chiusa, per poi riaprirsi dopo il nostro passaggio. L’onore è comunque molto opinabile: quello che va bene per uno non va bene per l’altro. I militari sapevano dove andare a sfogare il forte prodotto ormonale, tipico della gioventù. Il padrone di casa gestiva il suo “onore” dirigendo il traffico come ogni maitresse. Dava ordini alla suocera, alla figlia ed alla nipote di dieci anni. Se un membro femminile non soddisfaceva o si lamentava, ecco la punizione di un sonoro schiaffone. Naturalmente la più ricercata era la giovane ma non riuscii mai a farmela. Mi toccò, con schifo, la suocera. Comunque a furia di fare disegni e farmi apprezzare, finii a Savona, a Genova e poi a Milano all’ospedale militare, grazie alla simpatia di una suora tanto amica di un maresciallo della questura, padre di una deliziosa fanciulla che tenevo nel cuore.
Siccome sono moltissime le cose da raccontare, andrà a finire che ne salterò parecchie, comunque vi voglio descrivere due faccende causa di botte da orbi tra i poveri soldatini. La compagnia, alla quale mi onoravo di appartenere, era costituita da possibili “truppe d’assalto” dato che il più piccolo era un caporale e tutti gli altri partivano dal metro e ottanta per arrivare ai due metri ed oltre d’altezza. A vent’anni, si era tutti vigorosi e dotati di appetito. L’intelligenza e la serietà dei marescialli e serventi era così grande che distribuivano il rancio uguale tanto a quelli che erano alti 1,50 quanto a quelli che, senza contare l’altezza, si mangerebbero come niente un caporale al giorno. Vi erano lunghe tavolate e l’ordine era di aspettare il proprio turno. Va da sé che i primi si abbuffavano e gli ultimi restavano a bocca asciutta. Proteste verbali, minacce ed infine botte da orbi a non finire. Naturalmente punizioni e niente libera uscita: quindi fame ed altra rabbia portavano metà dell'esercito quasi a sbranarsi. Per fortuna io mi ero inventato una fonte economica con i miei ritratti e non partecipavo quasi mai ai pestaggi per poter uscire dalla caserma e quindi mangiare.
LE DOCCE DELLA“SCIANNA”.
Fonte d’odio terribile era la presa in giro di questi poveracci ridotti ormai all’esasperazione, sporchi, pieni di ogni lordura, ai quali veniva promessa la doccia. Li facevano denudare, insaponare e poi niente acqua. Bestemmie da competizione, minacce gravi e necessariamente via di corsa allo spaccio ove far debiti comprando acque minerali e gassose, con le quali tentare di togliersi il sapone. Altra presa in giro terribile era la pulizia delle stoviglie. Tremila uomini almeno che usavano la terra per sgrassare l’unto della “schiscetta” d’alluminio e poi zero acqua. La disperazione era massima, la volontà di massacro la si sentiva palpitare. Ma con fair play inglese i superiori dicevano che i panni sporchi si dovevano lavare in casa propria e che avrebbero spedito alla corte marziale chiunque avesse osato fiatare. Per dar l’esempio il signor Capitano ci riuniva e faceva la conta: se il disgraziato fosse stato tra i nomi segnalati dai caporali e sergenti carogna, per lui era finita. Gaeta per lui era la destinazione e disciplina di rigore era comminata agli altri. Tuttavia vedo che nessuno ancora oggi osa parlare di queste cose. Mi fermo all’ultimo evento. A Palermo, Il giorno di ferragosto, munito di qualche cinquemila lire guadagnate con la vendita dei miei ritratti, ho attraversato tutta la Sicilia per andare a trovare mia nonna a Scicli. Tornato alla sera, per paura del ritardo, punito poi severamente, mi feci trasportare da un taxi abusivo, che si fermò a suo piacere dove piacque ai due che lo conducevano. Mi venne chiesto di pagare ed io offrii un biglietto da cinquemila. Fiducioso aspettavo il resto, ma questi mi misero un coltello a serramanico alla gola e con l’aria tipica dei delinquenti affermarono: “Tu sei del nord e quindi devi pagare perché sei del nord. O vuoi un buco nella gola?”. Rinunciai all’intervento chirurgico non necessario e corsi dall’ufficiale di turno a raccontare trafelato ed emozionato quanto era successo. Aspettavo una risposta a mio favore ma il distinto ed onorevole militare mi disse lapidario: “Hanno ragione loro!” e così mi rassegnai e pensai solo ad evadere. Cosa che avvenne alla fine di settembre. A Savona trovai ufficiali galantuomini e marescialli e forza minore dello stesso identico stampo delle precedenti esperienze siciliane. Con l'aiuto di un bravo ed onesto galantuomo amante dell’arte, un maggiore dell'esercito, si riuscì a farmi ricoverare all'ospedale militare di Genova-Bolzaneto, tra matti veri e matti finti. Continuai a fare ritratti finché mi trovarono una vera gastroenterite che mi dava diritto a sessanta giorni di convalescenza. Terminata la convalescenza rientrai in forza all’ospedale di Baggio a Milano dove feci lo scritturale in molti reparti compreso quello psichiatrico.
GATTO CHE RUBA SULLA STUFA ACCESA
Era inverno e faceva molto freddo; la stufa era accesa al massimo e scottava: facevamo cuocere del cibo in padelle scoperte da cui emanava il profumo del cibo. Ad un tratto il nostro gatto salta sulla stufa accesa e con le zampine scoperchia una padella che cuoce un pesce rimaniamo tutti stupiti perche’ le zampine possono ustionarsi.Con gesto da maestro il micio aggancia il pesce e se lo porta a terra dove una volta raffreddato se lo mangia. Potere della fame!!
BACIO LE MANI!
BACIO LE MANI.
Quando ero in Sicilia presso la piccola fattoria del marito secondo di mia nonna Carmela, uomo notoriamente avaro, mi era stato insegnato a dire: ”bacio le mani a vossia”. Era questa una tradizione e consuetudine che non mi riusciva
di fare facendo arrabbiare il vecchio avaro.
MASSINO SUL LAGO MAGGIORE
Era un piccolo paese agricolo dove venivano coltivati diversi tipi di frutta. Le contadine del villaggio ogni due giorni venivano a Legnano a vendere la loro mercanzia. Il titolare di un alberghetto che aveva un camioncino e fungeva da trasporto merci e commercianti le portava a Lesa. Da Massino quindi scendevano a Lesa dove le contadine prendevano il treno che le portava con le loro ceste a Legnano, luogo di mercato. Le contadine camminavano scalze ma la loro merce era gustosa e ben matura.
martedì 11 marzo 2014
LEGNANO - QUINTA ELEMENTARE
QUESTA FOTOGRAFIA RISALE ALL’ETA’ DI UNDICI ANNI ED ALLA FREQUENTAZIONE DELLA QUINTA ELEMENTARE. IL SORRISO FA PENSARE AD UN CARATTERE APERTO E SICURO MA NELLA REALTA’ ERO ESTREMAMENTE TIMIDO E SENSIBILE. DURANTE QUESTI ANNI HO DISEGNATO MOLTO SU QUALSIASI PEZZO DI CARTA E COSTITUIVO UN GRANDE INTERESSE PER I MIEI COMPAGNI DI CLASSE. POICHE’ ERO ALTO DI STATURA LA MAESTRA MI AVEVA RELEGATO IN FONDO ALLA CLASSE ED I COMPAGNI MI COPRIVANO ALLO SGUARDO DELLA MAESTRA MENTRE DISEGNAVO FACENDO BARRIERA CON I LORO CORPI. PASSAVO MOLTO TEMPO A DISEGNARE ED I COMPAGNI SI DIVERTIVANO A VEDERMI ALL’OPERA. LA MAESTRA OGNI TANTO MI RICHIAMAVA ALL’ATTENZIONE DELLE SUE PAROLE CON QUALCHE SCHIAFFONE SULLE ORECCHIE.
STESSA SENSIBILITA' UOMO-ANIMALE
QUESTA MATTINA LA TELEVISIONE HA RIFERITO QUELLO CHE GLI ANIMALISTI SAPEVANO GIA’ D’ISTINTO: TUTTI I SENTIMENTI E LE ANSIE E LE PAURE SONO UGUALI PER GLI UOMINI TANTO QUANTO PER GLI ANIMALI E QUINDI LA CHIESA SBAGLIA PERCHE’ IL RISULTATO DI RICERCHE SCIENTIFICHE AMERICANE HANNO CONFERMATO STESSA SENSIBILITA AL DOLORE ED ALLA PAURA UGUALE SIA PER GLI UOMINI CHE PER GLI ANIMALI.
QUINDI NON E’ VERO CHE GLI ANIMALI NON SENTANO PAURA ED ANSIA E CHI PROVOCA LORO QUESTI SENTIMENTI DOVREBBE ESSERE PUNITO.
mercoledì 5 marzo 2014
CRISI ECONOMICA
A PROPOSITO DELLA CRISI ECONOMICA ITALIANA IO MI SONO FATTO UN'IDEA CHE PUO' ESSERE SBAGLIATA MA FORSE CENTRA IN PARTE IL PROBLEMA. MI RIFERISCO ALLA MIA CITTA' DI RESIDENZA E CIO E' LEGNANO .DA QUANDO SONO NATO LA CITTA' BRULICAVA DI GRANDI E PICCOLE INDUSTRIE: ERA UNA Città RICCA E DAVA LAVORO A TUTTI ANCHE NELLA PROVINCIA. ORA è MORTA E NON CI SONO PIU' INDUSTRIE: SOLO RELITTI IN DISFACIMENTO. COME MAI QUESTO TRACOLLO ? UNA IDEA STRAMBA MA PUO' ESSERCI DELLA VERITA'.SECONDO ME PUO' ESSERCI DI MEZZO IL SUD. TOGLIERE AL NORD PER DARE AL SUD E IL RISULTATO E' NEGATIVO PER TUTTI.
sabato 1 marzo 2014
PITTORI ITALIANI DELL'OTTOCENTO
Pittori italiani dell’ottocento
L’Italia ha un vizio: esalta i pittori stranieri e trascura i nostri grandi artisti come Antonio Mancini o Gaetano Esposito. In omaggio a Gaetano Esposito ho dipinto una bambina napoletana nel tentativo di imparare qualche cosa di piu’ di quello che conosco! L’opera è un dipinto del 1960 quando avevo 21 anni.
mercoledì 19 febbraio 2014
UBRIACHI A LEGNANO - ANNI '40
W IL VINO
Ah, gli ubriachi!
Oggi chi li vede più? Sono una razza scomparsa, del tutto estinta. Oggi esistono gli “etilisti” che sono ben altra cosa. Dovete sapere che alla mattina presto i lavoratori partivano in sella alla bicicletta, sicuri di sé, e viaggiavano ben bene dritti ed accorti. Alla sera però, dopo le cinque e mezza li ritrovavi tutti a piedi guidati dalla bicicletta che faticava non poco a ritornare a casa, trascinando attaccati ad una manopola del manubrio quello che alla mattina era il padrone ed alla sera diventava un avanzo di osteria o di “CIRCOLO DELLA PACE E FRATELLANZA” o “CASA DEL POPOLO” o “DOPO LAVORO”. Ogni tanto il residuo di padrone scivolava in avanti o indietro ed era sempre la bicicletta che conduceva a fatica il malridotto. Quante offese sopportava, povera bicicletta! Non era colpa dell’avvinazzato se l’andatura era a rotazione da una parte o dall’altra della strada, con ritorno all’indietro, pur con una lenta progressione verso l’ovile. Si sentivano imprecazioni tipo: “Dove vai, troia, vacca di una troia! Devi andare dritta, la sai la strada!”.
Poveretta, la bicicletta si sforzava di tenere in piedi quel rudere a due gambe, che parlava da solo oppure ce l’aveva con qualcuno che non si vedeva. La bicicletta, brava bestia, sopportava e cercava di tirare innanzi, anche sulle salite, trascinandosi dietro quel peso morto di ubriacone. Il raro traffico automobilistico sul Sempione aveva continui rallentamenti, magari perché due dopolavoristi avevano incrociato le biciclette e queste bestie non si ricordavano più da che parte andare. Qualche poveretta, stremata, non ce la faceva più e si accasciava sulla strada, trascinando anche l’avvinazzato. Qualcuno si addormentava sul posto e dovevano spostarlo sul bordo della strada assieme alla sua generosa schiava. Qualche altro era soccorso da volontari che lo tenevano sottobraccio mentre lui sgambettava come se dovesse salire le scale. Altri ubriachi urlavano, bestemmiavano da far paura: riuscivano ad infilare la porta del cancello sotto la vigile attenzione di noi bambini che scommettevamo quando il disgraziato avrebbe preso una “craniata” colossale contro il duro legno del cancello. Raramente ci era data la soddisfazione di vedere la craniata desiderata ed anche quando succedeva, dopo qualche secondo l’ubriaco era già in piedi, si fa per dire. Tuttavia l’affetto familiare soccorreva tutti questi energumeni e le mogli con il viso tra il vergognoso e l’addolorato, riuscivano, anche se a fatica, a riportare tra le mura domestiche la vittima del capitalismo, che per dolore si riduceva così nel vano tentativo di dimenticare i padroni oppressori che lo costringevano a lavorare. Tra gli ubriachi si doveva fare delle distinzioni: c’era quello simpatico, che faceva simpatiche battute sulle corna messegli dalla moglie per colpa della suocera, disgrazia della società umana; c’erano quelli che riuscivano in genere ad essere riportati dalla fedele bicicletta fino alla scala dove abitavano, a questo punto, però, la bicicletta sveniva ed allora scendevano i loro congiunti ed a furia di spintoni e sollevamento pesi li collocavano a letto vestiti e già pronti a ripartire per il lavoro l’indomani mattina, freschi e pimpanti a cavallo della fedele “due ruote”. C’erano poi ubriachi cattivi che mettevano paura e che preferisco dimenticare. Il trionfo degli ubriachi avveniva domenica pomeriggio. Alla mattina, tutti ben lavati e ben vestiti frequentavano la chiesa, dove stavano compunti a dormire. Dopo la consueta passeggiata con il vestito della festa per il rientro a casa, gustandosi con la vista lo splendore delle femmine che esponevano il campionario della loro eleganza e la vistosità delle forme e delle andature, alle dodici e mezza in punto tutti si buttavano sulla tavola riccamente imbandita con polenta ed uccelli scappati, pezzi di maiale che avvolgevano ripieni ricchi di prezzemolo ed altro, tenuti insieme da stecchini di legno, tracannando un bottiglione di vino nero con la scritta Barbera o Barbacarlo o Freisa, fabbricato a Rho verso Milano, poi polenta arrostita con gorgonzola ed alla fine noci dure da spaccarsi con i denti.
Dopo l’abbondante pranzo, si ascoltava la radio e ci si addormentava per qualche minuto, stesi sul sofà. Poi via, dagli amici all’osteria a giocare a carte e a bere vino nero pugliese, tanto duro e pesante da assomigliare all’olio di fegato di merluzzo colorato di nero. Alla fine, verso le sei della sera, ecco apparire le prime difficoltà: le sedie sono incollate al sedere, le gambe non rispondono ai comandi, ci si appoggia al tavolo e con la forza dei gomiti si riesce a stare in piedi. Già si sbaglia la porta per uscire e si prendono le prime capocciate. Poi, attaccandosi ai muri riescono all’aperto su un marciapiede affollato da centinaia di uomini vestiti di nero per la festa ma con vistose distorsioni di andatura. Le prime difficoltà per orientarsi verso la direzione da prendere, i primi scontri abbracci, i primi saluti distorti da una bocca che non si apre nel verso giusto, mentre aliti fetidi stordiscono i presenti, il colletto della camicia aperto e a sghimbescio, la cravatta slacciata, la giacca aperta ed aperta anche la patta dei pantaloni. Un passo incespica nell’altro ed incomincia la dura lotta della sopravvivenza. Le strade brulicano di migliaia di ubriachi. Le donne si fanno il segno della croce ed alzano gli occhi al cielo e noi bambini facciamo scommesse su quanti riescono a ritornare a casa oppure s’addormentano per strada. Di volontari per soccorrerli ce ne sono pochi, perché gli “astemi” sono rari. Qualcuno s’appoggia con il braccio al muro e vomita, qualche altro canta a squarciagola e c’è persino qualcuno che riesce a montare in bicicletta. Dal mio balcone controllo che anche mio padre non sia presente nella marea degli ubriachi. Purtroppo non è così: laggiù, all’incrocio fra via S. Francesco d’Assisi e via C. Porta, c’è una figura familiare che sbaglia la curva, ritenta, cade, si rialza. Cade ancora. Allora io mi precipito per le scale, corro incontro a mio padre, afferro il manubrio della bicicletta e lui mi dice con un sorriso distorto: “Che fai, Pelandra? non vedi che mi fai cadere?”. Parlando di ubriachi voglio raccontare un aneddoto che un visitatore di una mia mostra di pittura mi confidò recentemente. Al suo paese, questo signore oramai con i capelli bianchi, faceva parte integrante dell’organizzazione clericale ed operava in stretta relazione con il prete padrone. Era quindi quello che si può definire un bravo cristiano. Tuttavia la parte selvaggia ed animale di tutti i bambini e ragazzi era sempre all’erta e pronta a combinarne di tutti i colori. Viveva in questo paese della provincia di Cremona una brava persona, umile, zoppa, mutilata di una gamba, che svolgeva per tutta la settimana il suo onesto incarico di netturbino comunale. Era dotato di carretto, scopa e paletta per raccogliere l’immondizia. Svolgeva bene con coscienza il suo lavoro e manteneva pulite le strade del paese per tutta la settimana, con la simpatia della cittadinanza e l’affetto dei ragazzi. Arrivata la Santa Domenica, il “GAMBETTA” la celebrava come era d’abitudine tra il popolo: si prendeva una sbronza totale, una “ciucca” bestiale, tale da scaraventarlo per terra, farneticante ed ignaro di tutto quello che lo circondava o succedeva. I santi bambini dell’oratorio, sempre pronti alla preghiera, alla confessione ed a tutti i riti sacri cui obbedivano con fervore, a quella vista dimenticavano tutti gli impegni cristiani. I chierichetti buttavano via le sottane d’ordinanza, abbandonavano chiesa ed oratorio ed in preda a furia satanica, saltellando di gioia in un rito orgiastico liberatorio, caricavano il poveretto sul suo carretto dell’immondizia e lo spingevano a tutta velocità per le strade del paese, in una sarabanda di urla, lazzi e risate sguaiate da far invidia ai “sabba” delle streghe. Al termine della corsa, lo scaricavano nell’immondezzaio, quindi lo tiravano su di nuovo, lo ricaricavano nel suo carretto e via di nuovo per le vie del paese finché, stanchi per il gioco satanico, non lo riconducevano nella sua baracca fuori dal paese e ve lo scaricavano come immondizia. Diceva questo mio visitatore che il poveraccio si svegliava al lunedì mattina tutto pesto e sanguinante ma non si ricordava assolutamente come si poteva essere prodotto tutte quelle graffiature e lacerazioni che si ritrovava sul corpo ed in particolare sul volto. Riprendeva con serenità il suo lavoro per tutta la settimana fino all’arrivo della domenica, giorno di libertà per lui da sempre santificata tracannando tutto il vino che gli era possibile. Di nuovo la banda clericale si scatenava nel solito rito e né il prete né le autorità avevano mai avuto nulla da obiettare. Venne il giorno in cui il povero “Gambetta” tirò le cuoia, da solo, nella sua baracca. I ragazzi, santi per le giuste frequentazioni clericali, anche se talvolta crudeli come solo i ragazzi sapevano essere, amavano a loro modo questo relitto della società e si preoccuparono di andare a vedere come mai era assente dalla scena il loro “Gambetta”. Accortisi ed addolorati della sua dipartita, corsero dal prete perché gli desse almeno l’estrema unzione. Il prete, schifato, non ne volle sapere, con un disinteresse oltraggioso che scatenò una vera e propria ribellione nei ragazzi. Rimproverarono aspramente il prete che, quando stava male il riccone del paese, andava almeno due volte al giorno a confortarlo con tanto di carrozza e cavalli e che lo seguì salmodiando e con tutti i riti immaginabili fin nella tomba ed anche dopo fece più di quanto ci si potesse aspettare da un prete per un defunto. Non capivano i ragazzi perché per un poveraccio, dedito per tutta la vita a raccogliere l’immondizia, il prete non voleva nemmeno scomodarsi ad andare a benedirlo. Il prete non andò nemmeno a quello che doveva essere il suo funerale, perché i ragazzi caricarono la salma su una carriola a mano e la portarono al cimitero, dove una cassa comunale per i poveri l’accolse e fu sotterrato. Per giorni e giorni i ragazzi dell’oratorio protestarono col prete e minacciarono sciopero ad oltranza, finché, qualche giorno dopo, il prete si decise sotto la minaccia dei ragazzi ad indossare la stola per l’occasione ed a recarsi di malavoglia sul tumulo sconsacrato del povero “Gambetta”. Due parole in latino, due spruzzate col pennello delle benedizioni e subito dopo egli andò a far visita ossequiosa ai ricconi del paese che avevano male ai calli. La storia continuò da parte del visitatore della mia mostra e si addentrò profondamente nel mondo dell’alta aristocrazia clericale parlando di illustri cardinali e persino di un Papa. Tuttavia temo seriamente per la mia incolumità personale ed evito accuratamente di narrare ciò che le mie orecchie hanno sentito. Dirò una sola cosa che riguarda un grande Papa. In sentore di morte, si attaccava con frenesia alle maniche dei santi medici che lo avevano in cura e gridava in dialetto lombardo “fatemi star qui, ché qui si sta bene e non ho voglia di andare di là! Uè, avete capito? Voglio star qui perché è qui dove si sta bene, avete capito?” Il mio narratore giura di aver sentito raccontare questo episodio dalla bocca del sacro dottore personale che ebbe in cura il sant’uomo vicario di Cristo in terra. Lascio a lui tutta la responsabilità dell’affermazione e non saprei nemmeno riferire il nome dell’anziano fedele uomo di curia, che per tutta la vita ha curato il patrimonio e gli interessi del clero del nord. Se involontariamente ho commesso peccato, sono pronto a pentirmi, purché non mi attacchino ad un palo in piazza e non facciano di me un bel falò. Deo gratia, mi pento, mi pento e faccio penitenza. Appena a casa mi cospargerò il capo con la cenere, mi infliggerò il cilicio, dirò duemila preghiere, andrò a confessarmi e farò la comunione, se mi assolveranno dai peccati così commessi che sono ben più gravi rispetto a quanto vigliaccamente si sussurra tra le fila di un partito politico e cioè che un certo cardinale trafficava e favoriva il commercio delle armi pesanti, bombe, missili, aeroplani, carri armati e via dicendo.
lunedì 17 febbraio 2014
RICORDI DELLA MIA INFANZIA A LEGNANO
LA CHIESA DEI FRATI
Provenendo dal Sempione e diretti alla Saronnese, sulla destra sorge imponente la chiesa comunemente chiamata dei frati. Un vanto di questo complesso religioso era il coro con delle splendide voci ed un fantastico suono d’organo. C’era uno splendido apparato di voci bianche che mi entusiasmava e mi pareva d’essere gia’ in Paradiso. Solo in Francia a Parigi la Basilica del Sacro Cuore, almeno per l’organo mi ha ridato la stessa emozione. In omaggio a tanta bellezza, mai piu’ ripetuta ho disegnato un coro di voci bianche!
LE MILLE FARFALLE DAI FANTASTICI COLORI.
Alle case popolari di via Carlo Porta 56 , i costruttori avevano lasciato ai fianchi di esse
una lunga e larga striscia di rifiuti che con l’andare del tempo erano stati coperti dalla terra e dalla vegetazione. A nord delle montagnette si profilavano fin oltre il campo del Bernocchi fino all’autostrada per me piccolo, immense stesure di prati verdi. Come la scienza moderna ha dimostrato, crescevano una infinita’ di erbe ed arbusti selvatici secondo natura e lo spettacolo era magnifico. Non sono all’altezza di elencare la miriade di pianticelle selvatiche e di fiori spontanei, confermo solo che lo spettacolo era variegato e coloratissimo. Sara’ forse perche’ sono portato dalla natura al colore, io ero affascinato da quel paradiso di piccole forme e colori. Le farfalle poi completavano la scena idilliaca: erano centinaia di specie diverse, anzi forse migliaia e chi ha fantasia può immaginare quello splendido spettacolo. L’equilibrio della natura era garantito dalla presenza di un numero grande di uccelli che si nutrivano di parassiti per cui mi pareva di essere nel giardino dell’Eden. Un amico ha scritto recentemente che dove vive lui ci sono ancora le pecore che danno luogo a infestazioni di insetti noiosi, tanto da desiderare che le pecore andassero altrove. La scienza moderna riversa la colpa sull’uomo e precisamente su cacciatori che hanno sterminato o quasi gli utilissimi uccelli e l’estirpazione di gran parte di erbe selvatiche che nutrivano insetti e nemici degli insetti per cui e’ venuto a mancare l’equilibrio naturale compensativo. Meno erbe e fiori selvatici e quasi la totale scomparsa degli uccelli ha permesso lo sviluppo di insetti infestanti, lontani dalle famose griselle o maggiolini che noi bambini di una volta cacciavamo a mani aperte e ci divertiva il solletico che le loro zampette facevano sulle palme delle nostre piccole mani. Se allora fossi stato capace come ora di colorare i miei disegni come lo sono ora, avrei potuto mostrarvi il fantastico volo di mille colori delle farfalle di allora. Forse la solitudine e la mancanza di giocattoli mi portavano a pensare dentro di me su tutto quello che vedevo ed amavo tutti gli animali a tal punto da parlare con i cavalloni aggiogati ai carri che si fermavano in attesa d’ordine di trascinare i pesanti carichi con le famose parole :”VA LA’ UH!!”
IL GIOCO DEL CERCHIO
Per i bambini ricchi i cerchi in legno leggero e stretti di spessore erano gia’ pronti nei negozi di giocattoli. Per i figli di operai andavano bene i cerchioni delle ruote di bicicletta. Per chi non aveva niente come me stava a guardare. Il gioco consisteva nel far correre il cerchio su’ e giu’ per le strade.
CIRCO EQUESTRE A LEGNANO FINE ANNI ‘40
Come gia’ detto il circo equestre era il massimo dei divertimenti per noi bambini di tutte le classi sociali. Mi affascinavano i cavalli e in particolare l’abilita’ di alcuni coraggiosi che facevano acrobazie sdraiati lungo il fianco dell’animale al galoppo ed agganciati ad esso solo per le staffe. Sul dorso dei cavalli si esibivano gentili fanciulle che accennavano a qualche passo di danza mentre il cavallo percorreva la pista a lui riservata. Subito a casa tentavo di disegnare la ballerinetta che danzava con l’ombrellino in mano sulla groppa del cavallo.
LA PECORA
Sul prato dinanzi a casa mia stazionavano per qualche giorno numerose pecore ed ero incuriosito dal taglio della loro lana. I bambini si sa sono curiosi ed anch’io ho voluto provare a tagliare la lana di una pecora con l’aiuto del pastore.
domenica 16 febbraio 2014
IL CAVADENTI DI LEGNANO - ANNI '4O
I DENTISTI DI LEGNANO
Che io ricordi, in tempo di guerra e subito dopo c’era solo in corso Garibaldi lo studio dentistico del dottor Guerra. Molto piu’ tardi appaiono altri dentisti ma per lungo tempo, in periferia, circolavano personaggi inquietanti ai quali ricorrere spartanamente per risolvere i gravi problemi della bocca. Mi ricordo che alle case popolari di via Carlo Porta 58 ogni tanto faceva la sua apparizione fin dalla mattina presto un personaggio con giacca bianca da barbiere ed uno straccio bianco sulle spalle. A voce alta gridava “barbiere, dentista!” Sembra a noi una cosa incredibile ma allora lo stato di necessita’ portava ad accettare anche queste figure tutto sommato risolutive per certe situazioni! Il personaggio portava con se una sedia e si piazzava dinanzi alla Cooperativa Avanti, che disponeva di uno spazio asfaltato. I clienti non mancavano e ne ricorso uno con le mani sulla guancia che sembrava disperato. Il personaggio in bianco lo faceva sedere sulla sua spartana sedia quindi dopo una rapida ispezione chiedeva ai curiosi che si erano adunati intorno di aiutarlo nel lavoro: bisognava strappare un dente malandato ed infiammato. Alcuni forzuti curiosi si offrivano di trattenere il disgraziato per le spalle, dopo che era stato legato lo straccio bianco che normalmente portava a tracolla. La paura della vittima era palese ma l’operatore era sicuro di se e chiedeva agli improvvisati aiutanti di tenere ben fermo il malcapitato dolorante. Io ero sul balcone della mia casa e non potevo vedere quali arnesi adoperasse ma notavo la rapidita’ con cui infilava tale attrezzatura nella bocca del malcapitato. L’operatore in bianco per essere sicuro dell’immobilita’ della vittima, trattenuta ferma dalle braccia degli improvvisati aiutanti, gli metteva un ginocchio sulla pancia e con gesto oramai sicuro per l’esperienza, gli estraeva qualcosa che da lontano sembrava un dente, accompagnato da sangue. Il povero malcapitato era riuscito a sopravvivere e bestemmiando si toccava la bocca. L’operazione era riuscita e qualche moneta era stata conferita al dottore che intanto gridava: avanti un altro! Inutile dire che lo straccio bianco non era più bianco!
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