domenica 15 luglio 2007

LA VALIGIA DI CARTONE-VIAGGIO IN SICILIA

Il 21 luglio 1945, io Pier Andrea Vaccaro compivo sei anni di vita. Mio padre Ignazio era ritornato in maniera rocambolesca dalla guerra qualche mese prima, intorno al 25 aprile e mi ricordo che qualche persona lo aveva riportato di nascosto all’interno di un camioncino, di notte! Mia madre era informata e verso la mezzanotte lo aspettava sull’uscio della porta socchiuso. Tutto era buio ed una piccola torcia elettrica illuminava la scale, una piccola rampa di cinque scalini ammetteva all’amezzato e poi due rampe di dodici scalini portavano alla nostra porta. Si fece tutto in silenzio perché i vicini non si accorgessero del suo arrivo. Io ero sveglio ed i saluti avvenivano a segni perché tutto doveva rimanere segreto, almeno così si sperava. Mio padre era fascista e si temeva per la sua vita perché i partigiani avevano spie ovunque e noi abitavamo alle case popolari di via Carlo Porta 56, dove tra il nostro palazzo e quello vicino, più grande, vivevano duecentosessanta famiglie, quasi tutte di operai, considerati comunisti ed in contatto con i partigiani. La mia attenzione di bambino fu attratta subito da un fucile mitragliatore “Sten” piuttosto piccolo e con il calcio in metallo, appoggiato alla parete di una stanza. La mia curiosità sbottò subito in una domanda: “Quanti uomini hai ucciso?” ma fui subito zittito e non mi fu mai data una risposta. La mamma convinse mio padre a nascondersi sotto il letto matrimoniale e ci fu imposto il silenzio assoluto. Il giorno dopo tutti già sapevano che mio padre era ritornato e stava nascosto sotto il letto. Voleva dire che molti occhi avevano spiato e quindi le precauzioni erano state inutili. Tuttavia non vi fu a Legnano nessuna rappresaglia contro mio padre. Invece l’esaltazione per la fine della guerra aveva portato tutti a far festa e i “rossi” addirittura abbracciavano anche mio padre ex nemico ed ora vivo e vegeto come tutti loro. Alla sera, sul prato di fronte a casa mia, tutti gli abitanti si riunivano per far festa. Tutti quanti brindavano con numerosi fiaschi di vino rosso, mangiavano pane ancora nero con un poco di lardo di maiale e ballavano e cantavano e ridevano ed ognuno era curioso di sapere le avventure degli altri. Era ormai maggio e le sere calde risuonavano di voci allegre e dei giochi dei bambini. C’erano ancora quegli insetti chiamati volgarmente maggiolini o griselle e noi piccoli si faceva a gara a chi ne acchiappava di più. Strette nelle mani, con le zampette facevano solletico e per me era festa. Le lucciole brillavano intermittenti e rischiaravano la notte e tutto il mondo esplodeva di gioia. Chi possedeva una fisarmonica, la suonava e c’era anche qualcuno che tentava di cantare. Soprattutto era un gran fragore di risate: era finito l’incubo. Fino a qualche sera prima, al suonare della sirena, ci si doveva rintanare nelle cantine della casa, chiamate ampollosamente rifugi e le donne cantavano litanie religiose e pregavano in un “latinorum” che aveva una cantilena molto simile ai mantra dei buddisti, per cui i più piccoli si addormentavano, anche per via della loro incoscienza, per cui tutto diventava gioco e divertimento. Solo qualche tempo prima, bisognava tappare le finestre con carta blu e spegnere le luci perché era proibito indicare al nemico in cielo presenze umane o industriali. Tutti conoscevano Pippo l’aereoplano di ricognizione che sorvolava la città e c’era chi affermava che era tedesco e chi americano. Qualcuno lo chiamava l’amico Friz. Solo qualche tempo prima, verso le due di notte, stormi di aerei anglo americani bombardavano per ore ed ore la martoriata città di Milano. Da lontano, noi vedevamo una muraglia di fuoco che si alzava all’orizzonte per tutta la lunghezza di chilometri e chilometri fino a coprire l’orizzonte. In cielo, la contraerea illuminava con forti sciabolate di luce il nemico nella vana speranza di abbatterlo a cannonate. Anche dietro le case popolari, fin verso la strada saronnese c’erano delle postazioni antiaree. Ma il loro fuoco sembrava più mortaretti a festa tanto modesto, era la loro capacità di reazione e le luci ed i razzi sparati in cielo avevano colori diversi e sembravano agli occhi ingenui di mia sorella palloncini colorati. Mia nonna, poveretta, impazziva dalla paura e perdeva ogni ritegno. Avevamo già pronto un piccolo bagaglio a mano per fuggire da casa ed inoltrarci nelle campagne. Si andava spesso dietro a siepi dove ci si accovacciava finchè il rumore dei cannoni e delle bombe non cessassero e poi si ritornava. A volte si andava a casa di contadini nella speranza che li non cadessero le bombe: le donne sempre recitavano il rosario e cantavano litanie. Io mi divertivo come un matto e venivo ripreso a parolacce perché volevo uscire e vedere i fuochi e le esplosioni. Terminato lo spettacolo, con la nonna sottobraccio, perché non era in grado di camminare tanto era la paura, si ritornava a casa e tutto ricominciava come sempre. Legnano, nonostante la presenza di molte industrie e fra queste la Franco Tosi, che era sicuramente un obiettivo militare, non vi fu che qualche sporadico piccolo bombardamento. Ricordo una domenica piena di sole e dal cielo quasi blu, ero nella chiesa dei frati e verso le undici e mezzo di mattina si sentirono cadere tre bombe, ma nessuno si mosse e più tardi si seppe che morirono due persone ed una signora perse un braccio. Più drammatica fu l’esperienza che feci ad Intra, dove bombardarono un traghetto affondato in un tratto di lago molto profondo all’altezza di una grande curva che dai giardini di Villa Taranto portava a Pallanza. Poiché le montagne tutt’intorno brulicavano di partigiani, c’erano frequenti scaramucce fra loro e tedeschi e fascisti. Ricorderò sempre un mattino verso le ore dieci, quando con la nonna ero fermo all’imbarcadero di Intra. Eravamo andati a fare la spesa e la nonna comperava sempre il Corriere della Sera per essere informati sulla guerra in corso. Sotto la tettoia dell’imbarcadero, da cui partivano i traghetti per Laveno, c’era un giornalaio. Ad un tratto vedemmo una colonna di camion e macchine con alto parlanti che avvisavano di stare attenti perché sarebbe giunta una colonna di banditi prigionieri di guerra. C’erano militari tedeschi con il classico elmetto e miliziani fascisti in camicia nera e con il fez col fiocco in testa. Da Pallanza verso la Svizzera veniva avanti una colonna di giovani uomini e qualche donna. Portavano al collo dei cartelli con la scritta banditi. L’alto parlante issato su un camion scoperto, manovrato dal fascista, diceva attenzione, attenzione abbiamo catturato sulle montagne questi quaranta banditi partigiani. Guardateli bene perché li porteremo a Fondotoce dove verranno fucilati. Fecero girare il corteo all’indietro, tolsero i cartelli a quelli che prima erano in testa e li posero al collo di quelli rivolti verso Fondotoce. La nonna e tutte le altre donne vestite di nero commentarono “sono banditi”! e la colonna si avviò verso Suna e Fondotoce. Nel libro dei miei disegni dell’infanzia ho raccontato anche la fuga dalla caserma di Intra dei soldati italiani all’otto settembre del ’43 e dell’assalto che la popolazione affamata ha fatto alla caserma. Mi limito a raccontare qui che anche noi, nonna e nonno, con il carretto a mano, siamo andati un poco in ritardo nella speranza di trovare qualche cosa da mangiare. Passerò a raccontare di Legnano e del ritorno di mio padre dalla guerra. Praticamente la nonna di Sicilia non aveva mai visto noi nipoti. Quindi mio padre desiderava che noi figli si andasse in Sicilia a trovare i parenti. Sicuramente l’incoscienza ed il suo immenso piacere di mostrare i figli alla madre vinse ogni ritegno e convinse la nonna del lago Maggiore a farsi carico di una enorme responsabilità: andare via treno fino in Sicilia a ben mille e quattrocento chilometri di distanza, subito dopo la guerra e con tutta l’Italia distrutta. Quando lo racconto alle persone, nessuno crede alle mie parole e crede che sia tutta una mia fantasia. Nonna Maria aveva paura di mio padre e non osava contraddire il despota. Era una piccola donna del popolo, animata di grande amore verso di noi ma il viaggio più lungo che avesse fatto era quello che da Fondotoce portava a Legnano. Da Fondotoce a Intra c’era uno scassatissimo pulman blu, più simile ad una vaporiera che ad altro, tanto più che in tempo di guerra le auto ed i camion civili viaggiavano con un combustibile a legna bruciato in caldaia all’esterno e quindi marciava più per volontà divina che per il carburante. Comunque, carichi di valige di cartone, verso la fine di giugno, con un caldo terribile ci siamo avviati a piedi fino alla stazione di Legnano e da qui con il treno a Milano. L’avventura era cominciata! Mamma e papà non potevano accompagnarci perché lavoravano ed allora si lavorava anche al sabato. Fino a Milano tutto bene. Da Milano siamo partiti di notte col fresco e nessuno poteva immaginare l’inferno che avremmo dovuto subire per tre giorni e tre notti. Mio padre, che aveva partecipato alla guerra per ben cinque anni, avrebbe dovuto sapere che le ferrovie erano state bombardate e che i tedeschi in ritirata avevano inventato un sistema meccanico montato su rotaie per divellere, distruggere tutta la rete ferroviaria e che i ponti erano stati fatti saltare. Non c’è dubbio che al nord ci si era dati subito da fare per porre rimedio ai danni bellici. Il resto d’Italia era invece un macello. Dappertutto, ovunque si guardasse, c’erano bombe più o meno esplose, carcasse d’aeroplani, avanzi di carri armati bruciati e relitti di ogni genere. Quando andava bene si viaggiava su una linea unica e bisognava che prima passasse un treno e poi l’altro. Gli operai lavoravano con tutta la loro energia a sostituire i binari danneggiati e spesso bisognava attendere in aperta campagna per ore, che si abilitasse una linea di binari per far passare il treno. Le locomotive erano quelle a vapore e sotto le gallerie si moriva soffocati dal fumo e dalla puzza: si entrava puliti e si usciva neri. Il caldo era tremendo ed io, che ero piccolo, ero ospitato sulle ginocchia di qualche passeggero. Le carrozze persero via via che il viaggio proseguiva quell’aspetto umano che si era abituati a pensare. Dalle carrozze con i sedili di legno, si passò ben presto ai carri bestiame. Mancava l’acqua e qualche persona generosa correva a suo rischio e pericolo a riempire qualche bottiglia per noi. La nonna piangeva, la folla era immensa e quasi tutti stavano in piedi, anche aggrappati agli sportelli all’esterno dei vagoni. Molti coraggiosi montavano sul tetto del treno: era una bolgia infernale. Le soste più lunghe erano tormentate dalle mosche. Nessuno sapeva come andare al gabinetto e quando ci si fermava nelle campagne era una corsa fra una bomba ed un aeroplano per espletare i propri bisogni. Tutti sudavano, tuttavia quella marea di persone dimostrava tanta umanità verso quella signora anziana, vestita di nero e smarrita. Qualcuno ci offriva un poco di quello che lui mangiava e tutti cercavano di consolarci. Come al solito io mi divertivo molto ed ero attratto dalle bombe d’ogni dimensione, dalle mitragliatrici abbandonate e dai relitti militari, aerei o carri armati che fossero. L’unico tormento erano per me la sete e il caldo. Una cosa che non dimenticherò mai fu quando si doveva salire sui carri merci o bestiame. Non c’erano assi che favorissero l’ingresso e quindi per fare salire la nonna ci si mettevano più persone. Il dramma si ripeteva per farla scendere. Quando si viaggiava, c’era sufficiente tranquillità tranne che per fare i propri bisogni. Ma pulirsi con che cosa? Ora abbiamo igiene e carta profumata: allora o si adoperava la paglia o le mani. Lascio a voi immaginare cosa succedeva. I maschietti orinavano fuori dall’apertura del carro ed anche io facevo lo stesso. Problematico era per le femmine. Dimentichiamo questi disagi e passiamo a ricordare quello che di buono ricordo. Il peggio è passato. Dalla Calabria in giù si era tornati a viaggiare sulle carrozze dai sedili in legno e tutto sembrava più bello. Quando il treno si fermava, dai finestrini vedevo con grande piacere le donne nei loro costumi antichi che portavano in testa cesti di frutta ed altri cibi. Avevano una straordinaria nobiltà ed i loro costumi coloratissimi sopra una camicia bianca mi entusiasmavano. Penso che abbiano perso molto con l’uniformità dei costumi. Per me il ricordo di quelle donne calabresi con limoni nei cesti o le brocche d’acqua in testa sarà un ricordo indelebile. Qui al nord, tutto era omologato, senza fantasia: le donne anziane vestite tutte di nero con fazzoletti neri in testa erano veramente cosa triste. Impressionante era passare in mezzo a foreste di grandi oliveti. Le persone a bordo di vagoni erano cambiate e mi dava l’impressione che fossero più nobili con i loro vestiti neri e le coppole. Le camice erano bianche, aperte sul collo, senza cravatta. Erano baffuti, neri e parlavano poco. Avevano come bagaglio anche galline e frutta e tutto sommato si viaggiava molto più comodi che non da Firenze a Napoli. Forse in Calabria la guerra era stata meno devastante. Si arrivò finalmente a Villa S.Giovanni ma era sera e non si poteva attraversare lo stretto di Messina. C’era molta gente che doveva andare in Sicilia. Trovammo una persona che ci offrì di ospitarci tutti in una stalla, previo pagamento di una quota. La trattativa non andò per le lunghe. Finimmo in tanti in una stalla buia, senza né aria ne luce. Ci chiuse dentro a chiave e ci promise di venirci ad aprire l’indomani mattina per il giusto imbarco sul traghetto. Anche qui si presentò il problema di come espletare le funzioni fisiologiche. Si stabilì un punto del locale dove i bisogni si sarebbero fatti in un ben determinato mucchio di paglia. Per pulirsi: mistero! Io feci un lungo e profondo sonno e i miei bisogni li feci con disinvoltura visto la mia attrezzatura di maschietto anche se ci furono parolacce di disapprovazione che io non capii affatto. Finalmente arriva il sole, si ritorna a viaggiare e via sul traghetto: una cosa meravigliosa, in mezzo al mare. Giunti a Messina, si cambia treno e finalmente si viaggia lungo la costa fino a Siracusa. Quale magnifico ricordo: piccole spiaggette con barconi a remi da pesca, tutti colorati e in più il mare! Giunti a Siracusa ci accolse zio Pietro Vaccaro, zio di mio padre e con immensa felicità ci ospitò nella sua modesta casa. I figli per campare vendevano sigarette di contrabbando e zio Pietro faceva lo scalpellino. Era alto e pelato: era un ottimo oratore e mi portava spesso con lui. Era comunista e difendeva la causa dei poveri. Mi accompagnava al porto dove troneggiava una nave semi affondata. I bambini nudi si tuffavano nelle acque limpide del porto non ancora inquinato e, così, nudo, facevo anch’io. Verso la fine di luglio, ci avviammo verso Scicli su una littorina: un treno aerodinamico voluto da Mussolini che per mè rappresentò una meraviglia. Giungemmo finalmente a Scicli in una stazioncina linda e colorata di bianco. Qui trovammo Giovannino e sua sorella Angelina. Ci riconobbero subito per via di mia nonna e di noi due bambini. Baci ed abbracci e ci avviammo a piedi verso la casa di Ignazio. Ignazio era un bel giovane, grande mutilato di guerra. Gli mancava una gamba e l’altra era ferita. Aveva altre ferite e rotto i timpani delle orecchie. Era un uomo forte e coraggioso e con la sua invalidità ed il lavoro di impiegato al catasto di Modica, riusciva a mantenere tutta la famiglia, padre compreso. Ricordo con immenso piacere la stradina bianca a scalinate che si inerpicava sulla collina della cittadina fino a una rigogliosa vite che troneggiava ad albero sopra l’ingresso a scalini dell’abitazione. La vite produceva uva meravigliosa con grappoli in grande quantità e dolcissimi. Giovannino e Angelina dormivano per terra per offrirci i loro letti e l’ospitalità fu immensa. Qualche giorno dopo, su un carrettino siciliano, trainato da un asinello, ci portarono in campagna, tra carrubi e olivi, su stradine incorniciate da muretti a secco. Giungemmo ad una fattoria, tipica della Sicilia, detta masseria. Qui abitava la madre di mio padre, nonna Carmela che, per aver sposato in seconde nozze un Occhipinti, poteva contare su un minimo di tranquillità economica. Il vecchio Occhipinti era un avaro straordinario, credo inimmaginabile. Lui mangiava il pollo e a noi offriva le ossa dicendo che erano buone. Nonna Carmela era rassegnata: con quell’odioso vecchio aveva almeno uno straccio di ricovero sul solito pagliericcio. La vita in campagna era di una monotonia estenuante. Il vecchiaccio proibiva alla nonna di darci da mangiare se non delle fave (bollite?) con sopra olio d’oliva crudo. Una roba disgustosa, tale da farmi vomitare. L’acqua era prelevata con un secchio arrugginito da un pozzo in cortile. Io come al solito mi divertivo con tutto e quindi ero addetto a questo servizio. L’acqua era inquinata: c’erano vermi ed altre porcherie. Lo stramaledetto vecchiaccio Occhipinti proibiva di bollirla e diceva che così andava bene. Se non ci fosse stata la santa nonna Maria dal lago Maggiore, noi bambini saremmo morti di fame e di epatite. La nonna Maria, all’alba andava a rubare qualche uovo dal pollaio e di nascosto ce lo faceva bere. Io rubavo delle mandorle e in qualche maniera ci arrangiavamo. Nonostante la mia età, io già sapevo leggere, perché vedendo mia sorella che studiava a voce alta, cercavo di imparare l’alfabeto in stampatello del Corriere della Sera. Ed il vecchiaccio della malora voleva che oltre a baciargli le mani, gli leggessi qualche passo della Gerusalemme liberata o dei paladini di Orlando. Naturalmente io cercavo di evitare e in parte stavo al gioco inventando panzane o per lo più nascondendomi da qualche parte. Lasciavo che fosse la letterata di mia sorella a sostenere il compito di lettrice. Meno male che il vecchio si addormentava presto, dopo poche storie ed io ero così libero di giocare con i maiali. Erano lasciati liberi: c’erano madri con i piccoli e grossi maschi, tutti neri ed io salivo in groppa a loro e questi mi sopportavano. Con loro mangiavo i frutti dei carrubi che erano molto dolci e quindi sono riuscito a sopravvivere. Mia sorella trascorse un mese d’inferno ed accusò l’acqua del pozzo di averle causato mal di fegato. Meno male che un figlio del vecchio Occhipinti era una persona per bene ed ogni tanto attaccava la sua cavallina al calesse e ci portava al mare. Sampieri, Cava d’Aliga ed altre spiagge. Io ero felice perché la mia vivacità era quella di un giovane gattino. Quelle spiagge erano allora completamente deserte e ne porto un bellissimo ricordo. La sabbia scottava sotto il sole bruciante e mi muovevo saltando sulla tela di un ombrello. Dalla sabbia sbucavano fiori bellissimi, gigli di sabbia e piccole piante di vite che producevano enormi grappoli di uva bianca e nera dolcissima. Qualche volta veniva Giovannino con l’asino ed il carretto e faceva anche lui la mia felicità. Il problema era sempre la cara e santa nonna Maria del lago che non si sapeva mai come farla salire e scendere dal carretto. Anche in questa avventura il problema costante era quello di andare al gabinetto: non esisteva carta e bisognava non usare i sassi perché, sotto, potevano esserci le vipere. Normalmente io usavo una manciata di erba. Degli altri non so nulla. Naturalmente si dormiva su pagliericci e di notte c’era la compagnia dei topi che a me non davano nessun fastidio ma terrorizzavano nonna Maria e mia sorella. Finito il mese di campagna, ritornati a Scicli, mi parve di essere tornato alla civiltà. Di questa cittadina contadina mi ricordo il bianco accecante delle strade, delle case e degli straordinari dolci: cubaite, biscotti ricci, torte fatte con la buccia delle arance e nel campo alimentare mi avevano colpito pesciolini piccolissimi che si mangiavano in frittura. A Scicli, dietro una chiesa barocca tutta bianca, in un cortile c’era alla mattina uno straordinario mercato del pesce, anche con enormi pescioni. Uva dolcissima, vino straordinario, fichi normali e d’india: ne feci una tale scorpacciata con il latte, da fare una indigestione. Ricordo anche che nella cittadina le donne facevano la fila dinanzi alle fontanelle pubbliche e dopo aver riempito le brocche di acqua, con mirabile maestria se le ponevano in testa, sopra un piccolo cuscinetto. Quindi ritornavano a casa con apparente tranquillità. Al ritorno a Legnano, Giovannino ed Ignazio vollero regalarci del pecorino siciliano da portare a casa. E qui cominciò una tremenda avventura per via del caldo e del formaggio. Il ritorno è stato uguale all’andata. Le zone d’Italia ancora intatte erano la Sicilia e la Calabria. Gli spettacoli esaltanti erano i medesimi: barconi colorati sulle spiaggette in Sicilia, grandi boschi di olivi giganti in Calabria e costumi bellissimi delle loro donne. Man mano che si saliva nello stivale, ricominciavano i guai: trasbordi su carri merci, lentezze, fermate, difficoltà di ogni genere. In più il gran caldo stava facendo maturare il formaggio pecorino che emanava una puzza violenta assai simile al prodotto naturale che la natura ha previsto come escremento da espellere. Più volte con la nonna si era pensato di buttare via tutto oppure di mangiarlo, questo formaggio così puzzolente. Nonna Maria temeva l’ira di mio padre e preferì sopportare tale micidiale puzza. Il carattere di mio padre era, secondo la definizione dei miei, “nevrastenico”. Si verificava uno strano fenomeno: la gente era sempre in numero eccessivo, faceva di tutto per trovare un posto a sedere vicino a noi ma dopo un poco ci rivolgeva sguardi pieni di chiaro significato ed alla fine si alzava e cercava aria da un’altra parte. Insomma quel formaggio era una fonte di puzza inesauribile. Durante le lunghissime soste necessarie per la riattivazione dei binari e della segnaletica distrutti dalla guerra, io ho cercato di convincere la nonna dell’utilità per tutti quanti di sbarazzarci di quell’orrenda puzza che creava il vuoto, intorno a noi. La nonna si rifiutava però per via del terrore che le scenate violente di mio padre potevano creare. Arrivammo ad un compromesso: si sarebbe mangiato qualche cosa di quell’orrendo formaggio. Avremmo coperto con più roba possibile quella cosa mostruosa ed ogni tanto avremmo aperto la valigia per fare uscire la puzza. I passeggeri ci fissavano con lo sguardo interrogativo e finivano sempre a guardare me con atteggiamento sospettoso: “poverino, non sta bene, l’acqua della Sicilia ha provocato qualche disturbo e mi domandavano se avevo mal di pancia!” Mia sorella era di natura taciturna ed era sempre “malmostosa”, cioè di cattivo umore perché quella vacanza non le era proprio piaciuta. Mia nonna, poverina, non sapeva dove guardare e cercava scuse per giustificare tale lezzo. Più semplicemente io indicavo la valigia di cartone e dicevo: portiamo con noi delle forme di formaggio pecorino siciliano e loro allora cercavano un altro posto. Finalmente si arrivò a Legnano. La valigia fù esposta all’aria sul balcone per alcuni giorni affinché disperdesse quell’orrenda puzza. Bisogna sapere che la valigia non era nostra: ce l’aveva prestata la famiglia Magugliani dello stesso pianerottolo della casa. La valigia era di quella di quattro soldi che si comperavano al mercato. Io avevo consigliato la famiglia di comperarne una nuova da restituire al posto di quella puzzolente. Mia madre nemmeno mi ascoltava: da sempre risparmiava su tutto e non voleva spendere nemmeno una lira per quella valigia. Venne il giorno che la valigia fù restituita: non lo avessimo mai fatto; la reazione dei legittimi proprietari fu violenta. L’accusa fu quella di averci defecato dentro e quindi non la volevano più indietro. Siccome i Magugliani avevano tre figli maschi, questi se la presero con me, accusandomi dell’infamia: “hai cagato nella valigia”! e giù botte da orbi. Io ero piccolo e magro ed ebbi la peggio. Piansi amare lacrime ed inutilmente protestati la mia innocenza. Con tutte e due gli occhi neri e dolorante in tutte le parti del corpo, piansi a tal punto da convincere la mamma a tirar fuori quattro soldi con i quali io e la nonna andammo al mercato a comperare una valigia di cartone uguale a quella prestata. Quando la famiglia Magugliani rientrò in possesso della nuova valigia fu fatta pace almeno tra gli adulti. Non così fra noi bambini: io continuavo ad essere accusato di quell’orrendo misfatto. Si continuò per giorni a picchiarmi finchè mi venne l’idea di convincere la nonna ad offrire alla famiglia avversaria una caciottina di pecorino siciliano. All’inizio gli avversari pensavano che quel formaggio fosse avvelenato. Allora io ne mangiai un bel pezzo per tranquillizzarli e li convinsi ad assaggiarne un poco anche loro. Con molta diffidenza ognuno ne prese una piccola parte e con lentezza lo gustarono, arrivando alla conclusione che era un formaggio gustoso. I bambini però per qualche anno ancora mi accusarono di essere il terrone che cagava nelle valige.“Ul terun vunciun cal chiga n’di valis!”

Nessun commento: