giovedì 31 gennaio 2013

RICORDI, LIBERE RIFLESSIONI, ED ISTANTANEE DELLA VITA QUOTIDIANA DI TEMPI PASSATI.




C’era una volta un bravo falegname di nome Pietro, che viveva a Intra, sul lago Maggiore. La sua bottega stava sulla strada che dal lungolago, dopo la svolta, corre dritta fino a Trobaso, costringendo il vecchio tramvai ad ansimare per superare la salita e lanciarsi poi verso la bella Premeno, lassù tra le verdi colline.

Fino a qualche tempo fa la si poteva riconoscere ancora per le sue vecchie porte di legno ad ante, apribili a seconda della necessità. Quella era anche la sua abitazione ed è lì che ho vissuto per i primi anni della mia vita. Dalla strada, per entrare in casa, si dovevano scendere due alti scalini e poi via, stanza dopo stanza, si arrivava al laboratorio: un vero trionfo di bianchi trucioli di legno ovunque, banconi, morse, scalpelli, sgorbie, raspe, saracchi, seghe, mazzuoli, pialle, martelli e tutto quel che serviva per il lavoro del nostro Geppetto. Nonno Pietro rimaneva poco tempo con me a lavorare nella sua fabbrica dei sogni. Doveva viaggiare, spingendo il carretto, carico delle sue opere e dei ferri del mestiere, per consegnare il lavoro svolto e per cercare nuove commissioni. A volte stava lontano parecchi giorni e notti, perché si inoltrava nelle valli vicine, dal Monterosso fino a Domodossola.

Quale gioia essere tra i piedi del mastro falegname! Tentare di segare, martellare, raccogliere trucioli da inserire nella stufa e nel camino di casa per accendere il fuoco e poi poter accompagnare il buon vecchio nei suoi piccoli viaggi ad Intra, a consegnare botti, a valutare il vino, a dar consigli, su e giù per le salite accanto al carretto che il nonno spingeva a mano. Quando il nonno era assente, ne sentivo la mancanza e mi consolavo disegnando sui muri e sui marciapiedi con il gesso avanzato dai muratori. La mamma lavorava a Legnano e la nonna mi portava spesso con sé in questa città industriosa, popolata da un’infinità di tute blu, dalle loro biciclette e da tanti grossi cavalli che trainavano carri di legno dalle ruote gigantesche. La mamma abitava nelle case popolari di via Carlo Porta n. 56, a circa due chilometri dal centro cittadino, in mezzo a prati coltivati e nei pressi della strada provinciale Saronnese e del Sempione. Poco distante scorreva l’Olona, già nera e sporca per i rifiuti industriali. Le case popolari erano due grossi palazzoni che disponevano di cortili interni per far giocare i bambini. Di questi poi ce n’erano una valanga e la compagnia era sempre allegra. Con la nonna andavo a fare la spesa, specialmente al mercato del centro, ed i miei occhi avidi s’impadronivano di tutto quello che vedevo. Tornato a casa, aspettavo che la nonna ritornasse dalla cooperativa Avanti con qualche foglio di carta gialla e azzurra e su di essa disegnavo tutto ciò che la mia fantasia mi spingeva ad esprimere. In mancanza di carta, usavo il gesso per disegnare sul cemento del cortile. La carta veniva poi usata per accendere il fuoco nella stufa, oppure veniva bagnata e compressa a palla in maniera che indurendo divenisse buon combustibile per i giorni a venire. A Legnano, il direttore tecnico della manifattura Cantoni era sposato con una nobile signora di Pallanza. La nonna frequentava la sua villa e lì giocavo con Mariolino, piuttosto vivace e birichino. La signora si divertiva a vedermi disegnare e di tanto in tanto mi regalava dei libri d’arte, che arrivavano al marito collezionista. Questi libri avevano le immagini stampate solo su una facciata del foglio, che sul retro era bianco: era su quella facciata bianca che io disegnavo e così sono giunti fino ai nostri giorni alcuni dei miei disegni.

Per uno strano scherzo del destino, possiedo una memoria tale da poter ricostruire, attimo dopo attimo, l’intero corso della mia vita; tuttavia ho sempre avuto difficoltà nel ricordare i nomi delle persone. Ho degli amici che sono stati miei compagni di scuola ma i loro ricordi sono bloccati all’indietro fino al periodo del Liceo scientifico di Legnano. In generale posso affermare che i ricordi delle persone che ho incontrato nella mia vita riescono ad andare indietro non oltre i venticinque - trent’anni, poi c’è la nebbia. Prima o poi mi deciderò a scrivere quel che ricordo perché ogni volta che ne parlo sembra che tutti si meraviglino alquanto.

Ricordo con grande nostalgia la bottega del nonno Pietro, la mobilia nera con colonnine attorcigliate, il gran pendolo con cavallo sulla cima ed il suo sonoro e tranquillizzante battere meccanico. La grande camera da letto era di un gradino o due più bassa rispetto all’ingresso, la cucina ed il salotto. Ricordo i grandi letti con spalliere di metallo decorato, i comodini ricoperti dal marmo e contenenti il vasino notturno. Il grande gabinetto alla turca e le grate alle finestre che davano sul retro, su un muro di fabbrica che non ho mai esplorato. Ricordo il marciapiede separato da losanghe lunghe in crescendo perché la strada è leggermente in salita. La strada, alberata solo da un lato, era di ciottoli di fiume fissati ed allineati in terra con paziente lavoro e nel centro correvano due file ininterrotte di larghe pietre rettangolari a formare il tracciato carrabile.

Ricordo la splendida gente povera ma dignitosa, che viveva di poco senza lamentarsi e con grande serenità. Ricordo la spontanea solidarietà e l’affetto della giovane donna che abitava poco lontano verso Trobaso al piano superiore, accanto all’abitazione di persone di “rango” sfollate da Gallarate. La bella signorina allora aveva ventisei anni e mi prendeva in braccio con amore e mi baciava ed accarezzava e permetteva, da vera mamma, che le toccassi il petto. Ricordo il “gallaratese” che aveva un anno più di me e possedeva tanti giocattoli, che non mi permetteva di toccare e, fra questi, mi si era impiantato nel cervello con invidia un minuscolo motoscafo di latta che navigava nell’acqua grazie ad una vera elica mossa dalla combustione di un batuffolo di cotone imbevuto di alcool: una meraviglia! Scendendo verso il lago, prima della curva, c’era una bancarella che vendeva giocattoli di latta: ogni volta che si andava da quelle parti, ero come un cagnolino che avesse l’appuntamento con il suo albero: mi fermavo goloso a guardare e a godere di quelle meraviglie con tanto di ruote e decorazioni gialle su fondo rosso. Auto scoperte come si usavano prima della guerra, modelli di limousine con spazio separato tra il guidatore ed il passeggero, protetto da signorile abitacolo. La passione per questi giocattoli, mai posseduti, mi ha portato all’età di ventotto anni, con tanto di strepitosa auto sportiva scoperta (Alfa Romeo duemila spider con tettuccio extra della Touring) e fidanzata, a fermarmi sul lungolago di Pallanza, dove mi sono sdraiato sul bordo di una fontana circolare con zampillo per far navigare una barchetta giocattolo appena comprata. Segnato da questa esperienza, considerata da tutti i presenti come gesto folle, feci in modo che i miei figli non avessero mai a desiderare di possedere giocattoli e gliene regalai loro di ogni tipo, allo scopo di impedire che da grandi avessero il benché minimo rimpianto e desiderio. Sono convinto che non è bene contrastare i desideri dei bambini, perché questi desideri non realizzati possono condizionare tutta la vita futura. Forse fu per motivi simili che sono divenuto pittore a tempo pieno: i miei preferivano che io mi divertissi a disegnare con il gesso dei muratori sul marciapiede di casa piuttosto che spendere soldi (che non avevamo) per regalarmi giocattoli.

Mia moglie si meraviglia per la ricchezza di particolari che ogni tanto le racconto sulle mie esperienze di bambino e mi guarda male, come se m’inventassi tutto. Eppure le vicende vissute non sono esagerate dalla fantasia o da una sgradevole volontà di protagonismo. Ad esempio mi ricordo perfettamente il corteo dei partigiani condannati alla fucilazione dai tedeschi. Era una bella giornata con cielo azzurro e terso. Mia nonna mi aveva portato verso l’imbarcadero di Intra per fare la spesa. Erano le dieci di mattina ed i negozietti di frutta e verdura erano frequentati da anziane donne vestite di nero. C’era una mamma orgogliosa del figlio vestito con la divisa azzurra dell’aviazione, che ostentava con grande soddisfazione il braccio ferito, steccato da un supporto di legno e fasciato con candide bende, la giacca elegantemente riversa sulla schiena a modo dei cosacchi del Don. Tutte le donne, compresa mia nonna, avevano parole di elogio per questo coraggioso e valoroso soldato. Nel cielo, un piccolo aereo da ricognizione attraeva il mio sguardo, mentre scrutavo se ci fossero nubi in arrivo. Nei giorni precedenti c’era stato maltempo, temporali con tuoni come cannonate che terrorizzavano mia nonna. Mi trovavo sotto la tettoia dell’imbarcadero, quando l’attenzione fu attratta da un corteo compatto, dignitoso, composto da alcune donne e molti uomini sui ventisette, ventotto anni, vestiti come operai. I primi della fila avevano cartelli al collo con la scritta “banditi”. Alcuni militari, pochi in realtà, li controllavano e davano ordini. Li fecero sostare davanti all’imbarcadero verso la Svizzera, poi li fecero girare e si avviarono verso Fondotoce. Nessuna emozione negativa traspariva dai loro occhi, qualche giovane mi sorrise: nessuno piangeva o si ribellava, nessuno tentava di fuggire. “Sono banditi” dicevano le donne ed anch’io non compresi la grande tragedia umana che stava compiendosi dinanzi ai miei occhi. C’erano anche dei camion scoperti con altoparlante e qualche personaggio vestito di nero e con berretto con fiocco svolazzante sul collo. Pareva che la popolazione accettasse come cosa naturale l’avvenimento: forse la miseria e l’impossibilità di conoscere la verità tarpava il giusto significato nelle menti di queste anziane donne, preoccupate di aggiustare un pranzo ed una cena. Solo molto più avanti nell’età mi resi conto della drammaticità dei fatti: ero stato testimone di un evento fra i più tristi della mia intera vita.

Più divertente e vivido, come fosse oggi stesso, ricordo il pomeriggio successivo all’otto settembre ’43, quando i militari abbandonarono la caserma e la popolazione andò a depredarla, chissà di che cosa! Anche mio nonno e mia nonna, con il sottoscritto, andarono alla caserma con il carretto, sperando di trovare qualche tesoro. Quando giungemmo tutto era compiuto: non rimanevano nemmeno le porte; era sparito tutto. Rimaneva solo un fucile e mia nonna disse “Ma che cosa ce ne facciamo?” così si tornò a casa favoleggiando di chissà quale tesoro, magari in frutta e verdura, che poteva essere stato stivato nelle cucine della caserma. La speranza era di trovare sacchi di patate che certamente avrebbero alleviato per qualche giorno la fame. Tanto più che se i soldati erano scappati, le patate sarebbero andate a male lo stesso: chi è vissuto in quei tempi conosce il significato di un sacco di patate!

Polenta e latte: questo era il cibo costante di tutti i giorni fin dopo la liberazione. Confesso che ero completamente nauseato dalla polenta, nel latte, arrostita (raffreddata e tagliata a fette messe poi a riscaldare sulla stufa) e ancora peggio il riso cotto senza condimento oppure riso e latte: una cosa da far mangiare per punizione ai peggiori delinquenti. Provate ad assaggiare la buccia delle patate arrostite sulla stufa: altro che cucina francese!

Oltre la casa di mio nonno verso Trobaso, più in là di circa trecento metri c’era il negozietto di un ciabattino. Per un accordo tra nonno Pietro e lui, ogni giorno avevo l’incarico di andare a riferire l’ora quand’era mezzogiorno e quando erano le cinque e mezza della sera. Vicino al ciabattino, piccolo, magro ma sempre allegro, c’era un altro buchetto dove si vendeva frutta e verdura: cavoli, verze che la nonna ci dava a pranzo in alternativa alla polenta; al solo ricordo mi viene da vomitare. Meno male che ogni tanto nonno Pietro lavorava nel suo laboratorio. Ero felice ed osservavo tutte le sue mosse: piegava al caldo umido di una stufa stretta ed alta (sulla quale c’era una pentola di acqua) le doghe per le botti e mi meravigliavo come l’esperienza e l’occhio del falegname non fallissero mai: dopo un certo tempo rovesciava la doga perché prendesse la giusta piegatura, quindi assemblava le doghe inserendole in cerchi di ferro finché, per magia, prendeva corpo la botte, alta più di me e che poi trasportava con il carretto all’osteria che ne aveva fatto richiesta.

Chitarre, mandolini, oggetti da cucina, ed anche violini: appese ai muri stavano le sagome di tutti questi strumenti che servivano a disegnare le forme volute che venivano tagliate in ogni loro parte e poi incollate con sapienti pennellate di colla di pesce, messa a riscaldare. Ai grossi banconi erano installate morse di diversa dimensione in cui stringere i legni da piallare ed ogni tanto il nonno mi concedeva di tentare l’uso di questi attrezzi. L’incudine era uno strumento dai suoni armoniosi: nel camino nonno Pietro arroventava ferri, che poi teneva con grosse pinze nere appoggiate sull’incudine prima di procedere con martellate esaltanti. Possedeva anche un tavolino di ferro bordato ai lati ed uno strumento rotatorio che sprizzava scintille a contatto col ferro da limare. Nonno Pietro era paziente, gentile con tutti e ricercato per dare giudizi su diversi argomenti: era un gentiluomo con la vocazione del “paciere”. Sapeva raccontare favole, aneddoti della vita militare come attendente del sig. Capitano nella guerra del 1915/18, sapeva disegnare con la sua matitona da falegname il cavallo con il carretto. Aveva un tratto secco e pulito e costruiva il disegno come un ingegnere che già conoscesse i punti esatti da raggiungere con la linea. A proposito di linea, mi ricordo che proprio accanto al marciapiede scorrevano i binari del tramvai sporco ma giallo, colore che ho sempre amato, ma che in quei tempi sembrava quasi terra di Siena. Con il nonno Pietro ho trascorso giorni felici. Il nonno ferrava gli zoccoli dei cavalli di cui io ero innamorato. La mamma che lavorava a Legnano, come impiegata alla Banca di Legnano, arrivava ogni sabato pomeriggio, sul tardi. Giungeva a Laveno con la ferrovia “nord”, poi attraversava il lago con il traghetto e prendeva il tram fino a casa. Stava con noi tutta la domenica e poi alle cinque di mattina del lunedì ripartiva per Legnano. D’estate non c’erano problemi ed era quasi un gioco, ma d’inverno era duro: freddo e nebbia. Anch’io mi alzavo alle quattro di mattina con mia sorella per accompagnarla all’imbarcadero e mi ricordo la nebbia fitta che gravava sul lago e penetrava nei polmoni con un suo gusto particolare non del tutto spiacevole. Essendo il nonno lontano con il suo carretto per lavoro, la nonna preferiva portare con sé anche i nipoti per accompagnare mia madre: non si fidava a lasciarci soli in casa e la cosa mi divertiva.

Ricordo anche un personaggio, povero di spirito ma assolutamente buono, dell’età di ventinove anni (al mio personale censimento) che veniva chiamato senza disprezzo “lo scemo di Trobaso”. Questa brava e pacifica persona, che non ho mai saputo dove abitasse, passava di fronte a casa mia tutte le sere, prima del tramonto, e ci faceva divertire mimando comandi militari e facendoci marciare, muniti di bastoni come fossero fucili. Naturalmente veniva ripagato con qualche monetina da parte dei nostri parenti. Era alto circa un metro e settanta, magro, con capelli lunghi sulla fronte ma sempre ben tagliati sul collo ed indossava giacche troppo grandi per lui, che gli conferivano assieme ad una andatura scoordinata e sbilenca quell’aspetto strano e buffo che colpiva senza malizia la fantasia di quei selvaggi che eravamo noi bambini.

Disegnavo per terra, su ogni tipo di carta, sui libri, biglietti da visita, carta da lettere, tutto l’immaginario possibile. Parenti, amici, conoscenti, estranei, cavalli, carretti, vita d’ogni giorno, tutto era buono per stimolare il mio “estro”. Ero gratificato dal gesto di offrire in regalo la mia opera, così come lo erano i miei genitori. Prima di andare a scuola, quando, avevo tre anni, disegnavo per mia sorella che aveva tre anni più di me e già frequentava la scuola elementare. Non solo disegnavo per lei ma anche per tutte le sue amiche: compiti di scuola, cartine geografiche, illustrazioni di temi, libri ricordo, tutto insomma. Quando poi anch’io frequentai la scuola elementare disegnavo per i compagni di classe e si era costituito un “mercato” gestito dai fratelli Viscardi. Essi vendevano i miei disegni in cambio di figurine e giornaletti traendone personali vantaggi. L’opera più pregiata era l’uomo mascherato sul cavallo bianco accompagnato dalla pantera nera. In quel periodo disegnavo con accuratezza di particolari splendidi indiani pellerossa che copiavo da illustrazioni apparse sui giornali a fumetti. Una delle caratteristiche del pittore e dello scrittore è quella di poter osservare, spontaneamente, senza sforzo e quindi ritenere nella memoria, in maniera sistematica, tutto ciò che abbia colpito i propri sensi collegandolo alle emozioni. La differenziazione avviene poi nel restituire le esperienze vissute: il pittore si serve del disegno e del colore mentre lo scrittore usa la parola.

Sia l’uno che l’altro hanno poi la possibilità di usufruire a piene mani sia della esperienza di vita, sia del citazionismo di cultura. Nei confronti dell’esperienza, ci si accorge poi delle profonde differenze di sensibilità che ogni individuo possiede in quantità e maniera diversa. In ogni disegno che ho eseguito da bambino allo stato selvaggio oppure da adulto acculturato esiste sempre il desiderio di possedere e conservare per l’eternità momenti magici che abbiano scandito il corso della vita.

C’è un piacere intimo, profondo, assolutamente personale che spinge a ricostruire sulla carta o sulla tela la causa della piena soddisfazione personale in una dimensione spirituale atta a continuare l’estasi ricollegando in un divenire continuo la più sincera emozione ad un ricordo eternamente stimolante. Questo è il motivo che mi ha spinto fin da bambino a disegnare tutto quello di cui la mia mente, la mia anima abbia potuto desiderare di appropriarsi. Fu l’amore sviscerato per i cavalli, la gente, tutto il mondo oggettivo e di fantasia che io desideravo possedere con il gesto ricreatore di un segno o di un colore atto a farlo rivivere dinanzi ai miei occhi. Tra le migliaia di disegni giovanili, quelli esposti al Museo del paesaggio di Pallanza sono i pochi che il tempo e l’oblio non abbiano divorato come Kronos divorava i suoi stessi figli. Perché sono giunti a noi? Semplicemente perché sono stati disegnati su un caro libro d’arte che ho sempre voluto tenere con me da circa mezzo secolo: erano e sono la testimonianza di un diario disegnato e scritto nel corso della mia fanciullezza, per cui ho nutrito sentimenti d’amore e di gelosia. Un tesoro nascosto che è vissuto solo accanto a me. Molti altri disegni sono stati recuperati da parenti ed amici.

Nel corso della mia fanciullezza ho avuto esperienze di vita in località a volte estremamente differenti: dalla dolcezza del lago fino all’asprezza dell’ambiente di Sicilia mentre Legnano mi offriva documenti di efficienza e di proletariato.

La normale attività di disegnatore avveniva su carte occasionali mentre ricorrevo al librone solo in assenza di carta normale. Il disegno o schizzo avveniva normalmente a matita, tanto per fissare l’idea, poi lo contornavo con l’inchiostro a china intingendo un pennino da scuola in piccoli vasetti di cui tutti hanno memoria. Essendo la rappresentazione di un ricordo, mi veniva spontaneo il commentarlo con la sincerità e l’ingenuità di un bimbo che non amava affatto la scuola. Ricordo che il gioco assieme agli altri bimbi era talmente attraente che mio padre mi costringeva allo studio ed alla lettura di un libro sempre più odiato (La storia del re santo, S. Luigi) legandomi ad una gamba del tavolo di cucina. Sinceramente sono sempre stato un pessimo scolaro!

Ogni disegno porta scritta la località ispiratrice e l’anno di esecuzione. I soggetti vanno dalla rappresentazione degli amati cavalli, ai quali parlavo come uomini, non appena potevo avvicinarmi ad essi, alla rappresentazione del bestiario allora comunemente visibile ed ora purtroppo introvabile: rane, uccelli notturni, topini e pecorelle. I maiali hanno rappresentato per me una felice esperienza: molto socievoli, intelligenti, buoni di carattere furono amici di gioco nelle campagne di Sicilia, quando dal 1945 in poi fui ospite di mia nonna e di suo marito acquisito dopo la morte di mio nonno vero. Questo personaggio rappresentava il concetto stesso dell’avarizia. Mia moglie non mi permette di dire che costui, dopo aver mangiato il pollo, dava a noi bambini le sole ossa, affermando che erano molto buone. Tralasciamo altri particolari e pensiamo al gatto di casa, capace di aprirsi le porte come attualmente si vede alla TV in qualche spot pubblicitario di cibo per gatti. Il cagnolino Dick, concesso come amico ma subito tolto di mezzo per non pagare la tassa, conigli, ippopotami, asini e muli oppure personaggi che popolavano la scena della vita quotidiana di allora: operai in sosta a mezzogiorno in attesa di riprendere il lavoro, artigiani, ambulanti, scene da baraccone come il “calcinculo”, giostre di cavalli, artisti da circo, statue, fontane baroccheggianti, intraviste e sviluppate con la fantasia, figure riprodotte da libri e così via. Infine il grande idolo della mia fanciullezza: nonno Pietro.
Nonno Pietro a Intra

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