venerdì 9 novembre 2012
GLI ANTICHI MESTIERI RIVISSUTI CON SENTIMENTO ARTE E PITTURA DA ANDREA VACCARO NELLA RECENSIONE DI LUCIANO PRADA.
GLI ANTICHI MESTIERI RIVISSUTI CON SENTIMENTO ARTE E PITTURA DA ANDREA VACCARO NELLA RECENSIONE DI LUCIANO PRADA.
Mostra personale organizzata dall’Unione del Commercio del turismo e dei servizi della provincia di Milano-Associazione mandamentale di Legnano.
18 GENNAIO 1993 – 14 FEBBRAIO 1993
Palazzo Corio – Corso sempione 157 – Legnano
Perbacco. Ho davanti agli occhi una sorpresa di pittura: un artista affermato come Vaccaro, inserito in una dimensione estetica preziosa e collaudata, rampicato in una carriera aguzza ed intensa, rotto alle malizie di tutti gli aggiornamenti, cosciente di ogni suggestione, sale a rapporto con una necessità diversa, dettata da una sorta di via crucis laica ed epocale, un sacro monte di piazza, che sostituisce alle cappelle dedicatorie le vestigia di una verità mercantile e vissuta.
Ne viene un bozzettismo aulico, una sospensione di silenzi, un respiro trattenuto nell’ultima letizia, che fanno barriera a tutto quanto esuli dal gioco e dal momento del fare.
Diremmo che è una sorpresa, oppure una serenata a dispetto. Ma la sorpresa non è.
Aveva ragione Cesare Brandi: “Vaccaro è un pittore colto che ha ben assorbito la lezione della tradizione, con l’apertura verso l’avanguardia….”
Aveva ragione Guttuso: “Vaccaro ha una grande mano”
E allora, in definitiva, ha ragione Vaccaro, di disporre della tranquilla novità del raccontare a tema, dello scoperchiare il tempo, del fissare storie di uomini e di botteghe, garantendo alla loro singolare inventiva la grandigia dell’antico fabulatore.
Rispondendo bene, in ciò all’invito capzioso della Committenza, l’Unione dei commercianti legnanesi ed i suoi giovani imprenditori.
In fondo, Vaccaro è davvero un artista all’antica, orgogliosamente umile, che vive una sua appartata, algida tersa ragione. Sorretto da una segreta baldanza del vivere, sembra che ad ogni opera rimetta in gioco se stesso: cioè l’ispirazione, la pittura, la fantasia, il cuore, lo stile. Ma non tradisce mai la faticata speranza: resta sempre estroso, lirico, ironico inventivo. Resta poeta. “i cantori oggi non cantano”, sussurrava Floubert sul letto di morte. Non vale per Vaccaro.
Qui egli ha riesumato la sua perizia galeotta, e incalzando con malinconia stordita e rannicchiata dolcezza l’inesauribile curiosità intellettuale, ha fatto canto, ha fatto poema di una vicenda lunga ed antica, gioiosa incantata.
Scavando fra i ricordi colletti e fermandosi, negli istanti ideali, per ripensare creativamente ad un passato forse stanco, ma certamente glorioso, l’artista scopre il senso di un armonia profonda, celata nei dubbi dell’uomo e nelle verità della terra. E la dispone quest’armonia, con la naturalezza e la necessità delle cose apprezzate e godute.
Ma la memoria non è sollecitata per arrivare a grandi epifanie consolatorie, ed apparizioni prodigiose, essa è un deposito di frammenti quotidiani, banali, correnti, e non di meno vitali ed emblematici.
Una memoria intesa non come un luogo in cui si mummifica il passato, ma in cui lo si rilegge per arricchire, per umanizzare il nostro futuro.
Dentro questo progetto, Vaccaro si manifesta grande narratore di storie, di passioni di miti, di simboli, evocatore instancabile delle concrete utopie dell’uomo cioè dei mestieri dell’uomo Capace di ripiegarsi su una nota di malinconia tonale, su un registro allusivo di segno. Dal suo sguardo ripullula un rimpianto senza compenso, senza armistizi.
E la profondità obliqua di quello sguardo si trasforma in un grimaldello espressivo, atto a scassinare la cassaforte arrugginita di una cultura che consuma tutto, rotolando sgangheratamente ai posteri.
Volendo confermare, questa minima riflessione, che la tendenza della civiltà contemporanea appare, sempre di più e soltanto, quella di omologare il degrado. Che cosa muove Vaccaro? Quali pensieri, quali strade? Quale suo enigma a colori? La prima sensazione è la seguente: Vaccaro è sceso in piazza guardingo, a frugare tra i muri, a cercare la gente. A riscoprire la gente, secondo l’aurea legge per cui le parvenze figurative si fanno polvere di meditazione e generano essenze remote come in un sogno. Si è fermato all’angolo di un crocicchio, come i contadini che un tempo scendevano al mercato settimanale, per incontrarsi, sentendosi un pò come a casa propria. Erano tempi d’allegrezza semplice, carichi d’eguale futuro, civile e rassicurante. Nel tessuto effimero di quell’illusione eravamo forti, sicuri e felici, perché la vita vi conservava ancora il sapore dell’Antico Testamento: i suoi profeti, i vagabondi, gli alberi, le osterie, la campagna, il peccato, la Grazia, la Redenzione, le oche, le cicale, i pavoni. Le fisarmoniche. E quel cielo color di perla e le Alpi all’orizzonte, simili a una spalliera di neve. Personaggi cari alle mie mitologie provinciali, poveri ma con occhi di gioia, succhiavano scodelle colme di brodo e di silenzio.
Vaccaro ha il dono di cogliere la voce della gente, di saper scoprire e decifrare il colore, che è la più illuminata e, forse la più universale lettura della realtà. Quadri questi, che non cadono mai nello smorto della malafede. Sono opere ferite e pure, sogni della materia, pensieri affioranti in lacerazioni in grumi, in brandelli d’intonaco, in gocce di rimembranza.
Nell’ordinata baldoria di queste vetrine d’amore, le immagini dell’artista prendono una carnale musicalità accorata: ma lo struggimento, che sempre accompagna i percorsi all’indietro, vi è tanto più poetico quanto più appare assorta e velata la favola meravigliosa che vi si celebra.
Colpiscono i quadri, certi gradi di pulizia espressiva, di discrimine mentale, come l’assenza delle ombre. “Le ombre – aveva detto qualcuno – sono i pensieri tristi di Dio”: e ignaro, distante, vi aderì anche un pagano integrale come Gauguin. Colpisce, non marginalmente, il carattere mercuriale delle grafie, delle scritture d’insegna: un tratto rapido, tondeggiante, legato; le maiuscole profilate con eleganza; il positivo in nero della realtà ordinaria ed il rovescio in negativo delle scelte più fantasiose. Colpisce, nell’insieme, il risultato narrativo: un acquerelli degli anni, un rimbombo di cuore; o una macchia della memoria, cresciuta dietro il sipario greve della vita. La bravura di Vaccaro è mostruosa. E’ come un falchetto in volo: ora morbido e planato a pelo d’acqua, ora accelerato e predace, o impennato negli ineffabili azzurri delle altitudini d’aria.
Escono confessioni, cronache, ricordi, giudizi, incontri, ritratti, letture, citazioni memorabili, riscontri di popolo; salta fuori, se proprio vogliamo, il costume di un’epoca frantumato ed aggregato insieme in una fabula fascinosa.
Poiché lo stile è semplice, asciutto, ispirato alla maggiore naturalezza, si deve dire che il pittore ha colto qualcosa di essenziale nella realtà, di segretamente assoluto, e l’ha scoccata a chi guarda colpendolo diritto al cuore.
Un affermazione siffatta può essere considerata azzardata, impegnativa. Ma io credo che sia giusto buttarsi in fuori, quando le ragioni premono. Me beato. E’ valsa la pena- dico – di percorrere un aspro cammino, di sopportare le tristezze e qualche solitudine, pur di giungere a ciò che vedo nella foresta delle emozioni. E’ l’albero – Vaccaro, diritto e puntato in alto, mi consola. Ma tutte queste, forse, sono escogitazioni posteriori di uno che sta lottando, nel suo ristretto, a sconfiggere i difetti della memoria. L’oblio è dapprima un’ombra. Poi presto, può diventare sepolcro: attorno ad esso fioriscono i rimpianti e si distende la rassegnazione. – Gli si oppongono, talvolta, sparuti drappelli di angeli con il pennello. Ed io ringrazio Vaccaro che vi si è arruolato a colori.
Luciano Prada
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