giovedì 29 novembre 2012




LA STRADA DI VIA CARLO PORTA 56



Via Carlo Porta venne asfaltata solo dopo la fine della guerra. Prima era uno sterrato con polvere bianca. Bastava un acquazzone e si formavano ai miei occhi fiumi, cascatelle e laghi. I bordi della strada divenivano torrenti limacciosi con marezzature vorticose che aggredivano l’ostacolo e lo superavano scivolando sopra e poi ricadendo come cascate, mentre il resto della corrente girava intorno ad esso e si riuniva al flusso principale innalzando onde di barriera che correvano parallele, fino a sfociare in un lago ricco di acque e dal corso più placido. Un tuono ed un altro ancora e la pioggia si faceva più fitta e d’estate assieme ad essa gli angeli del cielo bombardavano i peccati dell’uomo con mitragliate di porfidi di ghiaccio, piccoli, medi ed anche grossi come ovetti di colombo. I bambini di via Carlo Porta, vestiti con le sole mutande, sguazzavano felici in mezzo al fango e facevano barriere con i loro corpi alla violenza del fiume che aveva invaso la strada. Bastava un poco di luce tra le nubi e l’acqua smetteva di cadere. Il fiume defluiva nei tombini che ribollivano e gorgogliavano. Alcuni rivoli larghi una decina di centimetri continuavano imperterriti a scorrere, modellando come demiurghi forme strane che assomigliavano a quanto piaceva immaginare alla nostra fantasia. Con un bastoncino, un gambo di fiore spontaneo o una foglia si dava forma alla terra molle e simile a creta. Le cascate divenivano più alte e le acque rombavano cadendo in giù. Io amavo i laghi e con le mani formavo delle recinzioni in maniera da formare argini e fermare la corsa dell’acqua. Qualche altro bimbo creava con le pagine dei quaderni di scuola barchette di carta e le ponevamo in gara all’inizio del fiume che iniziava a discendere verso l’incrocio di via S. Francesco d’Assisi. Vinceva il proprietario della barca che riusciva ad evitare gli ingorghi ed i risucchi nei tombini ed arrivava veloce fino al mare dell’incrocio. Io non ho mai vinto, ma aspettavo con gioia i temporali e quelle saette e quei lampi e quei tuoni come il peana di noi poveri e felici bambini. L’estate ci portava lontano nei prati e tra i boschetti. Qui si costruivano capanne da offrire alle fanciulle che ne approfittavano volentieri, scegliendo a capriccio il compagno del momento, tra l’invidia generale degli esclusi, poco pazienti e piuttosto lamentosi. Inventavano allora vipere comparse all’improvviso, rospi e rane inesistenti per poi infilarsi a rompere l’idillio agreste. L’estate era il tempo dei giochi con le carte all’ombra delle case o delle robinie. L’estate era il tempo delle sfide a chi avesse più coraggio e maggiore abilità: salire sui piloni della corrente elettrica ben oltre il permesso, oltre il fil di ferro spinato messo a segnare il valico oltre il quale si veniva folgorati; la sfida a chi sapeva tuffarsi nell’Olona, anche se topi e rane o rospi abbondavano; saltare il filo spinato che i contadini mettevano a protezione dei loro alberelli da frutto: io ci sono cascato proprio addosso al nodo ferrato e mi sono lacerato per bene dietro il ginocchio; ferita dolorosa che non guariva mai e mi ha lasciato una evidente cicatrice. L’uso di ragnatele come coadiuvante non serviva a nulla. Si facevano anche gare meno pericolose: a chi “defecasse” più in fretta e ne facesse di più; a chi “pisciasse” più in alto, più lontano e più in quantità; a chi “sputasse” di più e più lontano. Le più grasse risate ed il divertimento più travolgente avvenivano in cantina, dove c’erano i lavatoi in pietra grezza e quasi mai frequentati dalle mamme e dalle nonne. Riuscivamo a farci donare pezzi di camera d’aria delle biciclette. Quindi le infilavamo nel rubinetto e facevamo entrare l’acqua a tutta forza, chiudendo la fine del budello stesso. L’acqua penetrava potente ed allargava la gomma dando l’impressione di gonfiare un enorme pallone bislungo. Molto spesso, la gomma scoppiava allagando tutto l’ambiente ed infradiciandoci tutti. Altre volte, più fortunatamente, si riusciva a staccare il gommone ripieno tenendolo ben stretto fra le mani e si correva così in cortile a cercare innocenti sui quali rovesciare la bomba d’acqua. Finiva tutto in risate, nessuno si lamentava tranne le mamme e le nonne. Un divertimento da competizione era l’“aquilone”. Tutti eravamo super maestri, la nostra manualità era pari alla voglia di giochi e di divertimento. La gara consisteva nel costruire con leggerissime bacchette di legno, ma anche con quelle degli ombrelli più o meno regalati, aquiloni semplici ma ricchi di frange e balzelloni colorati. Chi aveva la coda più lunga e riusciva a lanciarlo più in alto vinceva. Seguivano poi corse notturne con scontro di crani e visione accurata di stelle vere oppure racconti di fantasia. Si parlava anche di un’arma segreta per far precipitare gli aeroplani, fermando loro il motore: bastava riempire una tinozza di zinco con l’acqua e poi aspettare che passasse qualche aeroplano. Questo avrebbe dovuto, secondo magia, precipitare ma fu sempre una grossa disillusione. Gli aeroplani continuavano nel loro lento, monotono volo finché il brusio del loro motore non si perdeva. L’atto di maggiore coraggio era costituito dall’inseguire i traballanti camion, specie quelli che portavano uno svolazzante tendone, e cercare di salirvi. Un poveretto però non ce la fece e fu travolto dalle ruote. Il mese di agosto era troppo caldo e ci riduceva all’ombra seduti a giocare con le noci di pesca: cinque noci che venivano lanciate in aria e dovevano essere prese al volo, partendo dal lancio di una sola da riacciuffare contemporaneamente ad un’altra appoggiata sul pavimento, poi due, tre ed infine quattro. Vinceva chi riusciva a raccoglierle al volo tutte e cinque. Per i freschi organismi di allora erano solo quisquilie. Alla mattina, meno calda, si effettuavano tutti i giochi da cortile: salto alla corda in tutte le varianti e giochi saltellando entro quadrati numerati segnati per terra oppure giro-giro tondo ed infine moscacieca. L’autunno portava venti simpatici che facevano mulinelli sulle strade con le rosse foglie cadute: noi le seguivamo e prendevamo più foglie possibili. Man mano che iniziavano le monotone piogge, i giochi si trasferivano sulle scale e la vita viaggiava sempre in allegria. Chi ha la mia età sa che a Legnano la neve incominciava ai primi di novembre e durava spesso fino a marzo. Mamma mia che felicità: spalare la neve, fare palle di neve e bombardare chiunque, costruire con la neve pupazzi sostenuti all’interno da scope e qualche volta ci mettevamo qualche bambino ingenuo che poi non si divertiva più e cominciava a piangere. Proprio dinanzi a casa mia esisteva un campetto un poco elevato che finiva sul Sempione. Si iniziava con una palla di neve e poi la si faceva rotolare nel bianco manto finché raggiungeva ragguardevoli dimensioni, quindi la si faceva precipitare sul Sempione in mezzo al traffico difficile che si veniva a creare. Poi a turno ci si sdraiava con il fondo dei pantaloni in una discesa ed a furia di ritornarci sopra si creava una pista da slitta. E via per tutto il giorno a scivolare seduti o sdraiati.

I più coraggiosi facevano due o più piste lungo la strada in discesa e mantenendo l’equilibrio si buttavano giù fino all’inevitabile caduta, che avveniva abbastanza frequentemente sulla nuca che rimbombava. Eravamo certo protetti o dagli angeli o dal demonio perché, salvo un poco di mal di testa, non succedeva niente di grave. Siccome queste piste da slitta o per scivolare le si faceva anche sui marciapiedi e lungo le strade normali e di notte tutto gelava, ecco l’indomani mattina il massimo divertimento a vedere nonne, mamme e papà che piroettavano e, con salti alla Fantozzi, finivano a gambe all’aria imprecando e maledicendo. Ci si divertiva più per le bestemmie che per i salti acrobatici. Tuttavia, queste persone erano sufficientemente vestite e protette e se la cavavano abbastanza bene. “Sa ta ciapù ta fò un cü insci, fiò d’un can!” Non ci prendevano mai perché noi eravamo piccoli, magri e molto agili. Altro divertimento “pirla” era quello, dall’alto di una montagnetta che dava sulla via Carlo Porta, di tirare contro le teste della gente palle da neve dove alcuni degenerati, delinquenziali, infilavano bei sassi all’interno. Qui erano bestemmioni e tentativi di vero linciaggio, sempre a vuoto per via dell’ elasticità e velocità di fuga. Purtroppo è capitato anche a me di prendere sul cranio un vecchio, distinto e dignitoso: non ha bestemmiato, ha tolto il cappello e si è massaggiato per bene. Mi ha guardato con vero odio, ha fatto la mossa di inseguirmi ma io ero già sparito, pur maledicendo quel gesto che in cuor mio non avrei fatto mai più. Chi fra voi, amici miei, può ricordare la notte incantata, con la neve che scende copiosa con grossi fiocchi lenti, in una strada tutta bianca? Immersa in campi tutti bianchi, ascoltando il dolce amico sfrigolare dei fili della luce, coperti di umidità, mentre il passo penetra nella candida massa stesa ai tuoi piedi, dinanzi a te quale amico silenzioso e servizievole che ti accarezza i piedi con un dolcissimo “sgnau, snau” della neve che vien compressa dal tuo peso? Se poi con te c’è anche tuo padre che ti accompagna al cinema Italia a vedere Stanlio e Onlio zingari? E quando esci dalla sala tiepida del cinema e rivedi il fresco bianco immacolato, steso su un mondo tutto tuo e così vasto da non finire mai? Caro amico, ti ricordi l’immenso piacere di rovesciarti nella neve, alta fino a farti coprire, o correre a fatica alzando spruzzi e giocare con essi? Hai voglia che la nonna si sgolasse a chiamare il tuo nome: “Pier Andrea vieni a casa che sei tutto bagnato!”ed io rispondevo: “Ma va là che la neve è asciutta”. E la neve durava e durava e passava anche dicembre e gennaio e febbraio finché arrivava marzo. Allora ansioso incominciavo a scrutare i prati che perdevano a tratti sempre maggiori il loro manto bianco, finché spuntava un’erba intensa, piuttosto scura e poi ecco apparire i primi fiori. Dopo qualche giorno riapparivano anche gli uccellini, soffiava il venticello, le nuvole facevano caroselli di fantasia e noi correvamo per i prati con i nostri aquiloni, con qualche cagnolino amato ed amico sincero. Allora avevamo completamente dimenticato il gelo della notte: i fiori di ghiaccio disegnati sulle finestre e le lenzuola dure come il baccalà sotto le quali si faceva la conta per veder chi per primo si dovesse sacrificare ad infilarsi per scaldare il posto agli altri. Tutti quanti facevano il baro affinché fosse un altro a prendere il nostro posto, anche se c’era il “prete” con i carboni ardenti che ci aspettava.
RACCONTO TRATTO DA "ODIARE PER VIVERE" NEL MIO BLOG

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