venerdì 30 novembre 2012
I NAPOLETANI SONO SEMPRE NAPOLETANI!
La gita in battello all’isola di Capri era partita bene. Il cielo era azzurro ed il sole forte. La barca aveva l’aspetto di un cadavere imbalsamato con una meccanica a diesel singhiozzante e piuttosto insicura.“Siamo disoccupati e dobbiamo arrangiarci!”. Poiché il prezzo era favorevole ed i miei genitori risparmiavano su tutto, decisero che la carcassa, chiamata significativamente “Dio pensaci tu” andava bene. Salimmo verso le undici di mattina attraversando il breve braccio di mare, che separava Capri da un avanzo di molo, su lugubri assi marce e senza appoggi per le mani: mi ricordavano un dipinto di Van Gogh rappresentante operai che trasportavano ceste di carbone su chiatte, camminando su lunghe ed insicure assi di legno. Il corpo marinai era composto dal capitano con tanto di berretto unto e bisunto; capitano in seconda, senza berretto né divisa, ma quasi in mutande rattoppate come la maglia con tanto di bottoniera sotto il collo; mozzo, senza scarpe né calze, pantaloni corti e torace nudo. Paolo Villaggio era in agguato a spiare tutto per poi scrivere i suoi famosi libri. Tentavano a vuoto di staccare l’ormeggio con litania di bestemmioni in napoletano stretto. Fischio di partenza. Motori ansimanti con catarro e sincope e tentativo d’investimento di altre barche e barchette con evidenti maledizioni napoletane. Finalmente ecco giungere il via sull’onda verso l’azzurro celeste del golfo di Napoli. Arrivati alla grotta azzurra, vi era la sosta nel vano tentativo di visitare il miracolo cercando di salire su barche a remi, pagando il biglietto, anzi, pagando senza biglietto. Il mare intanto ingrossava e l’onda lunga si mischiava a quelle a piramide tragicamente famose per affondare anche i transatlantici. Si rinuncia alla visita e si riparte verso il porticciolo di Capri, nel quale si attende l’approdo rollando perché non c’era il diritto di accesso e bisognava aspettare che qualche battello lasciasse l’ormeggio. Trovato un buco dove attraccare, vi fu la corsa fra barcacce di quel tipo per arrivare prima. Tamponamenti e bestemmie e finalmente eccoci sull’isola. Era mezzogiorno e avevamo una fame bestiale: volevamo mangiare i cannelloni ripieni. Lunga fu la ricerca accuratissima dei ristorantini leggendo il listino prezzi e facendo i conti con le riserve auree della famiglia. Alla fine, evaporando come stufe con la caldaia senza coperchio, il capofamiglia decise per un modestissimo canneto sotto il quale c’erano dei tavoli e qualche sedia. La tovaglia era sporca e, per tovaglioli, si usavano le mani. Né vino né birra, ma solo semplice acqua ci fu servita, sdegnosamente offerta dalla proprietaria che parlava tra sé in stretto napoletano (si sarà lamentata per la dovizia degli ospiti del nord?). Sul piatto, assieme a qualche mosca, tre cannelloni per quattro persone che come disse poi Villaggio, avevano la caratteristica di essere freddi all’esterno e bollenti come magma nella besciamella giallastra dell’interno. La fame da lupi ci fece addentare il cibo con conseguente scottatura della lingua e così giù acqua tipo pompiere. Infine il gelato chiuse il pasto. Visita alla piazzetta famosa, deserta perché era l’ora della bollitura solare e della “pennichella” abituale ed una rapida sosta per rimirare i faraglioni e poi tornammo indietro, scendendo per una scalinata al naturale con massi e rocce sporgenti fino al porto dove si giungeva con un bel salto che io feci con orgoglio, ma non le donne della famiglia. Nel frattempo subentrarono nuvoloni bassi e neri. Il sole scomparve ed iniziò a tirare un vento della malora. Attraverso un altoparlante della capitaneria di porto una voce gracchiava: “Mare forza otto, in aumento! Proibito lasciare l’isola!”. L’avvertimento andò avanti con monotonia e già pregustavo il forzato soggiorno e, quando vidi l’equipaggio della bagnarola consultarsi in un napoletano stretto e sottovoce senza sorridere affatto, allora capii le loro intenzioni. Con ordine perentorio ci fecero salire. Mio padre, che era stato fascista convinto, era sprezzante del pericolo e nonostante le onde acquistassero l’aspetto di piombo fuso, diede l’esempio e salì con un balzo sulla nave. Dietro a lui il sottoscritto ed una pletora di donne piangenti, grasse e magre che parlavano dialetti incomprensibili, atti a farmi pensare che appartenessero a qualche gruppo turistico organizzato dall’oratorio di Santa teresa del bambin Gesù. Non mancavano le suore ed un pretonzolo, piuttosto preoccupato. Il capitano si fece legare al posto di comando con le mani fissate sui manici del timone, il groviglio era poco tranquillizzante. Il secondo fu avvinto con le corde al palo centrale della "nave". Il terzo marinaio si sdraiò sotto una panchina di legno e si addormentò. Mio padre da coraggioso aveva afferrato le maniglie di una porta a vetri che si apriva sulla prua e con le gambe divaricate faceva salti involontari verso l’alto arrivando persino a mettersi con le gambe all’aria, non per la forza dei suoi lombi ma per la spinta delle onde. Mia madre e mia sorella piangevano a squarciagola e maledivano il coraggio di mio padre, che aveva smesso di avere quel ghigno satanico da coraggioso ed incominciava ad aver paura anche lui. Io mi ero abbarbicato al sedile di legno e sperimentavo col cuore in gola il volo degli astronauti. Arrivai persino a stare con la testa in giù ed i piedi al soffitto. Le donne del gruppo continuavano ad invocare Dio, la Madonna e tutti i santi e saltavano con il posteriore in aria dimenticando il comportamento educato delle donne per bene. In quel momento anche le suore mostravano in aria le natiche e non si preoccupavano affatto. Il prete aveva perso il messale, il berretto e le buone maniere. Ho avuto il sospetto che invece di preghiere stesse tirando certi bestemmioni da competizione e mostrava certi denti acuminati da farlo assomigliare a mastini napoletani inferociti. Il colletto bianco era slacciato e viaggiava libero verso l’alto. Non feci attenzione al suo abbigliamento intimo perché ero troppo attento a controllare il grigio piombo del mare, le sue tremende onde a piramide ed a soffrire ogni qualvolta la barca era sbalzata fuori d’acqua ed il motore andava a vuoto con un frenetico rumore d’eliche che giravano in aria. Ogni volta che la barca ripiombava in mare, la chiglia gemeva come una persona ferita prossima a tirare le cuoia. La confusione era terribile ed i marinai non parlavano. Tra le donne succedeva di tutto: le suore erano quasi nude ed avevano perso il cappellone bianco. Non avevano nemmeno più le scarpe. C’era una signora piuttosto in carne debordante che aveva perso ogni ritegno, il libro delle preghiere, il crocifisso, le scarpe e la fiducia nei santi.“Oddio mamma! Qui affondiamo! Oddio mamma, qui si muore! Oddio mamma, porco di qui, porco di là, oddio mamma se me la cavo giuro che sventro con le mie mani i marinai, uno a uno!”. Altre brave donne erano svenute e venivano lanciate da tutte le parti come sacchi di mortadella. C’era chi vomitava e qualcuno mi inondò la schiena di un liquido caldo e schifoso. Mia madre aveva assunto uno dei suoi tipici atteggiamenti isterici: dritta e dura come un baccalà, con un crocifisso, immancabile, stretto fra le mani giunte in preghiera, vibrava tutta, dalla testa ai piedi, come una macchina perforatrice stradale in azione. Mia sorella dava l’impressione di essere impazzita e non aveva atteggiamenti controllabili: si strappava i capelli, perdeva indumenti, si agganciava dove capitava, piangeva, anzi urlava, ed invocava santa Rita da Cascia, la santa degli impossibili. Mio padre ballava come non avrebbe mai immaginato di poter fare. Il suo volto era nero, accigliato e non parlava più. Da alcuni segni, mi pareva che avesse terminato sia il coraggio che la forza fisica. A balzelloni, saltando in su con il sedere ed arrivando a sdraiarmi sul soffitto per poi ripiombare giù, riuscii ad avvicinarmi a lui e, gridando con tutta la mia forza vocale, lo invitai a sedersi al mio posto mentre io l'avrei sostituito come il coraggioso di turno e fu uno spettacolo terribile. Mentre danzavo, vedevo la prua della barcaccia inabissarsi sotto un’enorme onda nera. Poi salivo verso l’alto e con me la barca con i suoi motori impazziti che facevano girare a vuoto l’elica. Finalmente dopo due ore di inferno, avvistai la costa alta di Sorrento e, da solo, il cuore riprese le sue funzioni. Vidi il marinaio uscire da sotto il sedile, slegare quello legato all’albero maestro e tutti e due liberarono anche il capitano. Con un coro di imprecazioni tutti quanti lasciammo l’imbarcazione, pregando Dio di non farci mai più ricapitare in mano ai napoletani. Questi non dissero una parola!
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