venerdì 30 novembre 2012

VIAGGIO VERSO IL SUD




Chi si lamenta dei trasporti d’oggi lo fa perché suggestionato dal comune dire o perché talmente giovane da non immaginare nemmeno cosa significasse intorno al 1945 viaggiare in terza classe verso il meridione d’Italia:

1. Le carrozze erano rottami di prima della guerra, tutti in legno;

2. Funzionavano soprattutto le vecchie locomotive a carbone, con relativo fumo negli occhi;

3. I passeggeri erano tanto numerosi e con tante di quelle valigie, scatole, gabbie, pacchi ecc., da ricordare certi film ambientati nel Messico;

4. La linea ferroviaria era quasi per intero interrotta. I ponti quasi tutti distrutti;

5. Il treno si fermava continuamente, spesso in aperta campagna, per via dei lavori ai binari o ancora perché rimaneva una sola corsia, appena riadattata, e doveva attendere il via libera;

6. Non esistevano treni veloci e questi sostavano parecchio in ogni stazione. In alcune, importanti località, c’era l’obbligo del cambio di treno con relativo spostamento di masse immense di uomini, donne e bambini più relativi bagagli a mano;

7. Si era in estate con un caldo bestiale. Tutti sudavano e puzzavano come immondezzai;

8. Si mangiava e beveva quello che era possibile trovare ed il rifornimento d’acqua era affidato a coraggiosi che si preparavano a scendere, prima ancora che il treno si fermasse, per fare scorta d’acqua presso la fontanella della stazione e poi di corsa risalivano rischiando per lo meno le gambe;

9. I passeggeri parlavano dialetti sconosciuti ed a malapena ci si intendeva con i gesti;

10. In attesa di salire su treni combinati in arrivo magari dopo ore e ore, bisognava parcheggiare le natiche per terra ammassati in un’orgia di gente stanca, assetata, affamata, che non era riuscita a fare i propri bisogni corporali e magari faceva delle flatulenze in pubblico. Mettici anche l’alito fetido, la puzza del pecorino, le collane di aglio, le cipolle che mi facevano lacrimare ed infine tanta, tanta puzza di piedi;

11. Arrivati finalmente a Villa San Giovanni, bisognava attendere l’indomani mattina per attraversare lo stretto di Messina e per passare la notte, dopo lauto compenso, venivamo segregati e chiusi a chiave in una stalla, previo aver effettuato totale ripulitura e svuotamento vescica ed intestino subito fuori della porta, fra l’erba, pulendosi bene con i sassi. L’unica raccomandazione fatta dal titolare dell’albergo era stata: “Quando vi pulite, fate attenzione a dove prendete i sassi, perché sotto ci possono essere le vipere”;

12. Tra la massa di passeggeri in un colossale ingorgo di membra c’erano russatori di prim’ordine, ruttatori vari e soprattutto scorreggioni da competizione. Qualcuno parlava nel sonno. C’era chi piangeva, chi aveva paura del buio, chi temeva di essere alleggerito del portafoglio e chi non era riuscito prima a fare i propri bisogni. Io stesso nel corso della notte ho urinato diverse volte e c’è stato qualcuno che si è lamentato;

Finalmente giunta l’alba, si spalancò la stalla e tutti corsero per prendere il treno e cercare posti a sedere. La nonna disperata non ce la faceva a correre, con tutti i bagagli. Qualcuno mi spinse attraverso un finestrino e in un caos da bolgia infernale e finalmente riuscimmo ad attraversare quel braccio di mare ingoiati col treno in un ventre enorme di balena. L’impatto visivo con la Sicilia fu straordinario, così come lo era stato per quasi tutte le regioni meridionali, dove il treno era passato attraverso boschi di ulivo. Sulla terra un mare di proiettili di cannone, armi d’ogni tipo e persino carcasse d’aereo. Alle fermate delle stazioni, potevo godere di un’umanità straordinariamente diversa da quella alla quale ero abituato da sempre: gente dall’aspetto squadrato, colorito scuro, in abiti neri. Le donne portavano grossi fazzoletti neri in testa e sopra di essa trasportavano con assoluta indifferenza anfore, ceste, gabbie di animali e tutto quello che non saprei descrivere. Nello scomparto facevano l’apparizione galline starnazzanti, animali vari ed era per me una continua gioia per gli occhi. Il ricordo che mi è rimasto vivo nella mente nel tratto Messina-Siracusa è quello di fantastiche spiaggette ricolme di tonde barche da pesca colorate a metà di azzurro o di rosso o di giallo e la parte sotto di nero. Di notte mi è rimasto impresso il fuoco che usciva dal camino della locomotiva, quando affrontava traballante una curva. Di giorno muretti di sassi appoggiati ed incastrati al vivo, senza calce, grandi ed estese macchie di fichi d’India, con il loro tipico color verde acqua chiaro. E nei campi gli asinelli e le capre e le pecore ed il color verde scuro dei carrubi, che così verde non ce n’è.

Finalmente ecco Siracusa. L’abbraccio dei parenti festosamente accoglienti e finalmente la loro calda, generosa ospitalità ed un’abitazione tipica della Sicilia povera. Le case erano lunghe con porte di legno apribili sulla strada, che immettevano direttamente nella camera da letto con un grande lettone decorato e subito dopo la cucina. Non mi ricordo proprio se ci fosse anche il gabinetto. Forse c’era ma era all’esterno ed era una cosa complicata, con tende per nascondere ed acqua a mano che ognuno doveva aver cura di attingere alla fontana. Trascorsi a Siracusa un mese intero, tra gente povera, anche ammalata ma generosa. Da loro ho gustato le melanzane impanate fritte ed i famosi fichi d’India. Pericolosissimi da maneggiare e difficilmente scordabili per le conseguenze di malaccorta premura nel cibarmene. Poi ricordo tante angurie e tanti bagni nell’acqua limpida, trasparentissima del porto, contrassegnato da una nave affondata che emergeva con la parte superiore ed il troneggiante fumaiolo. Credo di aver goduto il bagno di mare più bello del mondo, nudo completamente fra altri bambini completamente nudi. Poi accompagnavo lo zio Pietro, fratello di mio nonno Andrea, già da gran tempo defunto, nelle cantine meravigliose per la frescura e le loro antiche arcate, dove, fra i tavoli e brava gente seduta, lo zio Pietro illustrava con fine dialettica i suoi convincimenti politici di estrema sinistra. I cugini in secondo grado si davano da fare a vendere sigarette di contrabbando ed Ennio suonava la fisarmonica. Alla mattina facevo visita allo zio Pietro che di professione faceva lo scalpellino di pietra dura, arte ormai scomparsa. Mi ricordo questa bella pietra bianca che prendeva forma sotto lo scalpello e tutti gli accalorati discorsi dello zio sulla giustizia comunista. Forse fu per questa sua vocazione oratoria che in seguito fu costretto ad emigrare a Buenos Aires, dove probabilmente sono finiti parecchi miei disegni. Ennio poi ci accompagnava anche al cinema all’aperto, dove mi godevo Tarzan che ritornava fra gli uomini civili.

RACCONTO TRATTO DA "ODIARE PER VIVERE" SUL MIO BLOG

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